lunedì 18 dicembre 2006

Meglio del tenente Colombo

Furio Colombo, Vita, morte e politica, l’Unità, 18 dicembre 2006.

Il paradosso italiano mi viene improvvisamente svelato da un visitatore americano che sa un po’ l’italiano e niente dell’Italia, ma mentre sta in Italia ascolta la radio.
Mi dice: «Sapevo che siete un Paese cattolico ma non credevo fino a questo punto. Sessanta veglie contro il dolore e la sofferenza, continue notizie per solidarietà con la lunga agonia di un uomo, anche per un Paese profondamente cristiano non e un po’ troppo»? Ho potuto rassicurarlo. La vicenda è quella di un uomo, Piergiorgio Welby, che soffre troppo e chiede di morire. Ma sono i miscredenti che si mobilitano contro la sua sofferenza, sono gli atei (o in tal modo sono descritti), sono i militanti del partito Radicale che è forse l’unico partito in Italia a non essere intimidito da ciò che prescrive la gerarchia ecclesiastica.
Il politichese italiano, tutto, si ispira alle istruzioni dei cardinali che dicono: «Peccato che soffra ma va bene così». Oppure al politichese dei partiti che dicono: «Peccato che soffra ma purtroppo non c’e una legge».
Oppure, in un altra versione, che però è del tutto equivalente: «Peccato che soffra, non c’e una legge e non ci sarà mai». C’è chi aggiunge che è bene stare vicino a chi soffre, ma non spiega per fare che cosa. E chi, in un impeto di sincerità, nel titolo di un giornale considerato religiosamente “osservante”, intitola «La veglia dei boia» per descrivere le manifestazioni di solidarietà dei non cristiani per la sofferenza inumana di Welby. Scrivo – ingiustamente lo so – «i non cristiani» perché sto aspettando, come tutta l’Italia, una parola cristiana di pietà, (nel senso di amore e rispetto) e dunque di intervento per Welby. Sappiamo che prese di posizione (e iniziative di fatto) per salvare altri Welby dalla tortura ci sono state nel mondo, e non da parte di miscredenti e di assassini. In Italia silenzio o frasi vuoto mentre Welby continua a morire. Mi unisco sin d’ora a chi deciderà di dire (e di fare) ciò che, la civiltà impone: il silenzio è colpa, il rinvio è scusa. Un uomo non può essere abbandonato alla sua pena indicibile.

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