venerdì 1 giugno 2007

Ovociti in vendita a 250 sterline cadauno

Ogni volta che la commercializzazione degli organi umani si pone come una possibile alternativa alla donazione si scatena una reazione animata e abbastanza compatta: un mercato di organi umani sarebbe un grave errore e moralmente ripugnante.
La decisione dell’Human Fertilisation and Embryology Authority (Gran Bretagna) del 21 febbraio scorso di permettere la vendita di ovociti a scopo di ricerca ha riproposto le obiezioni consuete che investono il mercato di organi: la discriminazione (saranno i più poveri a vendere e non certo i benestanti) e l’indisponibilità del proprio corpo (come posso vendere pezzi di qualcosa che non mi appartiene?).
Si parla di rimborso spese (“Women will not be paid for donating their eggs. Researchers will have to follow the same system as donation for treatment; donors can only claim back the expenses that they have actually incurred”) e come condizione si stabilisce l’intenzione altruistica (ma come verificarla?); tuttavia per definire senza ipocrisia questa forma di “donazione pagata” sarebbe forse più onesto parlare di vendita di ovociti.
Discriminazione, società castale, “cannibalizzazione” tecnologica, mercificazione del corpo, nuovo schiavismo e così via, sono modi diversi per esprimere la propria contrarietà rispetto alla possibilità di vendere gli ovociti, e sono tutti corollari dell’immoralità della strumentalizzazione del proprio corpo.
Ma sono ragioni valide per sostenere la condanna morale della vendita degli ovociti?
L’appartenenza del proprio corpo non è una questione che possiamo liquidare aggrappandoci alla presunta immoralità del disporne (commercialmente): in una prospettiva non religiosa la premessa che il corpo che abbiamo ci è stato donato e non possiamo disporne deve essere ridiscussa. E non è semplice, pur accogliendo come premessa l’espropriazione, determinare a chi appartenga il nostro corpo: allo Stato? Il veto morale sulla possibilità di disporre del proprio corpo, poi, è già stato intaccato dalla ‘vendita’ del sangue: che differenza morale c’è nel vendere ovociti?
Quanto alla immoralità di utilizzare gli esseri umani (e parti di essi) come strumenti per uno scopo (la ricerca, in questo caso) è utile riflettere sul fatto che è esattamente quello che facciamo quando chiamiamo l’idraulico o usiamo la parola ‘impiegato’, che denota brutalmente una relazione di reificazione e strumentalizzazione. Proprio come ricorda Richard Lewontin, non vale forse anche per concetti quali ‘braccia da lavoro’, ‘capitale umano’ o per l’immenso numero di bambini che nascono per realizzare ambizioni frustrate dei genitori, per ereditare un impero o per soddisfare biechi desideri di immortalità?
Inoltre è opportuno distinguere le conseguenze non necessarie (sebbene condannabili) di una determinata azione: la discriminazione è una conseguenze possibile del mercato degli organi. Può la commercializzazione ereditare automaticamente la condanna per qualcosa che provoca (non necessariamente, seppure frequentemente)?
Se è la condizione di indigenza a compromettere la libertà della scelta (di vendere un ovocita o un altro organo), la soluzione non risiede però nel vietare o nel limitare quella libertà, bensì nel rimuovere la causa della compromissione della libertà di scelta.
Si può anche decidere che è impossibile combattere la discriminazione e non è opportuno aggiungere una ennesima occasione di ingiustizia sociale. Ma sarebbe doveroso rispondere alla seguente domanda: per quale ragione le persone economicamente svantaggiate starebbero meglio se la possibilità di vendere i propri organi fosse loro negata? E ancora: se fosse una persona benestante a scegliere di vendere un ovocita o un rene, quali obiezioni rimarrebbero?
Il paternalismo non sarebbe una soluzione consigliabile per uno Stato che voglia ancora definirsi liberale e non autoritario.

(Su Agenda Coscioni di aprile con il titolo Ovociti in vendità: sfruttamento o libertà?)

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