mercoledì 24 settembre 2008

Il testamento biologico secondo Bagnasco

Le recenti dichiarazioni di Angelo Bagnasco, presidente della Cei, a proposito del caso Englaro e del testamento biologico, sono ben lungi dal rappresentare, come si illudono alcuni, un’apertura in senso liberale (qui la blogosfera, grazie a Malvino e JimMomo, ha fatto meglio in media dei giornali, che si sono quasi tutti lasciati incantare dall’ambiguo eloquio del cardinale). In realtà le parole di Bagnasco rappresentano la conclusione di un dibattito, interno alla galassia integralista, che è andato avanti durante l’estate (e di cui abbiamo dato conto, a più riprese, su Bioetica), che ha visto contrapposte un’ala di realisti e un’ala di duri e puri. Le gerarchie ecclesiastiche – come del resto era pressoché scontato – danno ora ragione ai primi, e passano il dossier al Parlamento, perché confezioni una legge che soddisfi in pieno i loro desiderata.

Per molto tempo il testamento biologico è stato tabù. Ancora durante la scorsa legislatura ogni tentativo di approvare un disegno di legge in materia è stato fatto abortire senza pietà dai rappresentanti del Vaticano che sedevano in Parlamento; sebbene le norme costituzionali delinino il diritto a rifiutare le cure in ogni situazione, è pur vero che l’assenza di una legge apposita rendeva problematico l’esercizio di tale diritto.
E tuttavia un diritto costituzionale deve essere fatto valere, anche in assenza di una legge apposita; un ruolo, questo, che spetta alle corti di giustizia – checché ne pensino gli analfabeti che hanno sollevato il conflitto di attribuzione contro la Corte di Cassazione proprio riguardo il caso Englaro. Sono stati precisamente i pronunciamenti recenti delle corti a cambiare la situazione, come del resto ammette esplicitamente lo stesso Bagnasco. Il caso Welby aveva aperto la strada (anche se non aveva nulla a che vedere col testamento biologico, ma solo con il diritto a rifiutare le cure), ma non era stato decisivo: il calvario giudiziario di Mario Riccio, benché conclusosi felicemente, non era decisamente incoraggiante per gli aspiranti emulatori. Invece per Eluana Englaro il via libero finale della corte era stato più deciso e preventivo; e riguardava direttamente le direttive anticipate di trattamento, che è tema più controverso del semplice rifiuto delle cure, già più o meno digerito dalla normativa (al di là delle complicazioni peculiari del caso Welby).

Si imponeva a questo punto un cambiamento di strategia. Per sbarrare il passo a interpretazioni analoghe a queste (che, anche se non hanno forza di precedente nel nostro sistema giuridico, sono comunque fonte di diritto, e ancor più orientano il costume e i comportamenti concreti) si è deciso di concedere un po’ di terreno, in modo analogo a quanto successo con la legge 40, che non collimava con la dottrina cattolica ma limitava comunque severamente i diritti dei cittadini in modo conforme alle direttive ecclesiastiche. È chiaro infatti che nell’atto di approvare una legge tramite i propri rappresentanti in Parlamento, le gerarchie sono obbligate a riconoscere la Costituzione, e a fare i conti con essa. Diventa a questo punto difficile continuare ad opporsi al concetto stesso di testamento biologico, in particolare per quanto riguarda il rifiuto delle cure: impedire di esercitare questo diritto a chi si trova in stato di incoscienza è una violazione sfacciata dell’art. 3 (eguaglianza di fronte alla legge). Ed è qui che nasce l’opposizione degli ultrà, contrari ad ogni concessione, e fautori per esempio di un’improbabile (ed eversiva) «interpretazione autentica del dettato Costituzionale». A costoro si aggiunge adesso il Foglio, che in un editoriale rimprovera Bagnasco per le sue parole di «rinuncia» («Eminenza, qui la cosa non funziona», 23 settembre 2008, p. 3; da antologia dell’assurdo il finale: «Puoi rifiutare una cura e lasciarti morire. È un fatto. Ma una legge che stabilisca questo fatto come diritto è un’altra cosa»); con il rischio – reale, vista l’ingenuità di molti ‘laici’ – che Ferrara assuma più o meno consapevolmente il ruolo di «poliziotto cattivo», avallando per contrasto l’immagine di una Chiesa liberale.

Ma in realtà i più fanatici – sinceri o di facciata che siano – hanno poco da temere dalla nuova legge. Questa nasce infatti seriamente depotenziata: in primo luogo con l’esclusione (ribadita da Bagnasco) dell’idratazione e del nutrimento artificiali dal novero dei trattamenti a cui si può rinunciare. Ma soprattutto con la non obbligatorietà per il medico delle direttive del paziente, che ovviamente mina alla base la credibilità del testamento biologico – sebbene rimanga la possibilità di cercarsi il medico ‘giusto’, con le immaginabili sofferenze e peregrinazioni di chi verrà chiamato a far rispettare la volontà di chi non può più esprimersi.
Vale la pena di vedere cosa dice Bagnasco a questo proposito, perché è qui che l’ambiguità del suo discorso può indurre più facilmente false speranze:

Si è imposta così una riflessione nuova da parte del Parlamento nazionale, sollecitato a varare […] una legge sul fine vita che […] riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito – fuori da gabbie burocratiche − di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza [corsivo mio].
Per apprezzare il reale significato di queste parole bisogna conoscere bene la neolingua integralista, e non farsi fuorviare dall’incoraggiante accenno al valore legale del documento. Per «rapporto fiduciario tra paziente e medico», o anche per la gettonatissima «alleanza terapeutica tra paziente e medico», gli integralisti non intendono, come si potrebbe credere, la concordanza di volontà fra il malato e chi lo cura, ma invece la supremazia indiscussa del secondo sul primo. Vera alleanza è lo stivale che schiaccia la faccia dell’aggredito.
Vogliamo una riprova? Ecco il commento a caldo di Assuntina Morresi su Sussidiario.net:
Dichiarazioni anticipate solo se all’interno di un rapporto di fiducia con il proprio dottore, che quindi ne dovrà sicuramente tenere conto ma che non sarà obbligato ad eseguire: il medico non potrà che agire in scienza e coscienza nell’esercizio della sua professione, che prevede il dovere di prendersi cura dei propri pazienti, innanzitutto non abbandonandoli [corsivo mio].
Ribadisce Eugenia Roccella sul Mattino“Bioetica: la Chiesa apre, ora il dialogo”», 23 settembre, p. 7), usando parole simili a quelle di Bagnasco:
Sono convinta del fatto che [il testamento biologico] non debba avere valore vincolante per il medico. Se così fosse, infatti, ad uscirne distrutta sarebbe proprio l’alleanza terapeutica che naturalmente esiste tra il medico e il suo paziente, che ne rappresenta il fondamento. Il rapporto verrebbe pesamente dequalificato, facendo del sanitario, al più, un mero burocrate. Ciascuna esperienza è unica ed è per questo che la possibilità di deroga non può essere annullata.
Cosa ci aspetta nelle prossime settimane? L’approvazione di una legge che segua queste linee è a questo punto cosa certa (non capisco bene donde derivi la fiducia di JimMomo che si possa ancora «difendere ordinatamente il risultato» delle sentenze giudiziarie). Beninteso, anche con le concessioni di facciata che conterrà, la legge rimane incostituzionale: l’esclusione della nutrizione artificiale va contro l’art. 13 sull’inviolabilità della libertà personale (oltre che contro lo stesso Codice di deontologia medica!); purtroppo l’errore capitale di accettare di porre la discussione sul piano voluto dagli integralisti – la nutrizione artificiale è/non è un trattamento medico – tende a velare questo fatto, e lascia a costoro la comoda possibilità di limitarsi a reiterare il loro «no, non lo è» fino ad esaurimento. Quanto alla possibilità del medico di non obbedire alle volontà del paziente, qui siamo in un certo senso al di là della mera incostituzionalità, al diritto fatto strame. Il richiamo alla libertà di coscienza dei medici può avere un senso – pur con tutte le distorsioni, anche profonde, che conosciamo nel caso dell’aborto e della procreazione assistita – quando si tratta di azioni richieste al medico; ma non quando al medico si chiedono delle omissioni, che – come si sa – possono essere equiparate alle azioni solo in presenza di un obbligo giuridico (art. 40 Cod. Pen.). E dov’è l’obbligo giuridico di una pratica che la Costituzione proibisce? Il fanatico integralista che si ostina a mettere le mani addosso al suo paziente inerme, nonostante l’espressa volontà contraria di quello, non può invocare la propria coscienza: sta commettendo un reato (art. 610 Cod. Pen.).
L’unica possibilità di opporsi alla legge risiede dunque, come ben vede Malvino, nel ricorso alla Corte Costituzionale. I precedenti con la legge 40 – con ricorsi laboriosissimi, ed esaminati in modo talvolta non ineccepibile – non lasciano molte speranze; ma nell’assenza di un’opposizione laica in Parlamento questo solo ci resta. Fino ad allora non esisterà più in Italia il diritto di morire in pace.

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