venerdì 30 aprile 2010

Trapianti ora si condanna l’altruismo

Qualche giorno fa il Comitato Nazionale per la Bioetica ha espresso un parere sulla donazione di organi a beneficio di estranei su richiesta della Presidenza del Consiglio. Nel precedente parere del 1997 si poneva come condizione necessaria una relazione affettiva o di consanguineità tra donatore e ricevente.
Oggi invece il CNB apre alla possibilità di donare un organo ad un estraneo nel rispetto della gratuità e dell’anonimato, dopo una valutazione delle motivazioni del donatore e un attento accertamento clinico.
Sebbene appaia bizzarro richiedere un parere su una possibilità già ammessa da una legge risalente al 1967 (più forte anche del parere del CNB del 1997 quindi), la buona notizia riguarda il buon senso e il rispetto per la libertà individuale, che dovrebbe comprendere la libertà di donare un proprio organo. Senza considerare che per qualcuno potrebbe rappresentare la differenza tra vivere e morire.
Tutti d’accordo e soddisfatti allora? Manco a dirlo alcuni bioeticisti cattolici, come Francesco D’Agostino e Adriano Pessina, si scagliano con violenza contro il parere, disseppellendo le più ripugnanti e incoerenti motivazioni per sostenere il loro anatema. È difficile capire se la loro condanna dell’altruismo (la condanna della libera scelta non suscita ormai stupore) sia imputabile alla tentazione irresistibile di essere bastian contrari o da qualche altra piega oscura della loro ideologia.

DNews, 30 aprile 2010.

giovedì 29 aprile 2010

Due paradossi per una sentenza /1

Man mano che compaiono nuovi commenti alla sentenza 138/2010, con cui la Corte Costituzionale ha rifiutato di dichiarare incostituzionali le norme del Codice Civile che limitano il matrimonio ai soli eterosessuali, si fanno sempre più chiare le implicazioni a tratti sconcertanti di questo pronunciamento. Per quanto mi riguarda, cercherò di mostrare quelli che mi sembrano essere due paradossi contenuti nella sentenza.

Unioni civili: dovete farle, ma solo se vi pare
Com’è noto, la Consulta ha stabilito – ed è uno dei pochi punti positivi della sentenza, forse l’unico – che le unioni fra persone omosessuali costituiscono una delle formazioni sociali di cui parla l’art. 2 della Costituzione, e sono meritevoli pertanto di riconoscimento giuridico. Ecco il passo pertinente della sentenza (§. 8):

L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.
Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.
La Corte sta dicendo, in pratica, che l’unione fra persone dello stesso sesso merita sì un riconoscimento giuridico, ma che questo riconoscimento può assumere varie forme (almeno finché ci limitiamo a considerare solo l’art. 2 Cost.): il matrimonio, l’unione civile, etc., e non deve dunque necessariamente concretizzarsi nell’estensione delle nozze agli omosessuali. Siccome la Corte non può fare le leggi, spetta al Parlamento regolare la materia nel dettaglio. Tutto bene, dunque? Non proprio.
La Corte non può sostituirsi al legislatore per emanare una legge, ma è comunque nei suoi poteri lanciare un monito affinché il legislatore la approvi; è quanto ha fatto, per esempio, nella storica sentenza 27/1975, in cui si dichiarava incostituzionale la disciplina allora vigente sull’aborto, ma si avvertiva anche della necessità di regolare la materia con una norma apposita:
Ma ritiene anche la Corte che sia obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza serii accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione: e perciò la liceità dell’aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla.
Obbligo è il contrario di discrezionalità; ma nell’occasione, di cui ci stiamo occupando, della sentenza 138/2010 la Corte ha scelto di dichiarare che il Parlamento deve agire in proposito «nell’esercizio della sua piena discrezionalità». Sembrerebbe allora di capire che il Parlamento possa anche scegliere di non intervenire affatto, lasciando prive le coppie omosessuali di un riconoscimento che pure spetterebbe loro. Interpreta così Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, intervistato dall’Unità (Delia Vaccarello, «“Così la Consulta conferma l’ipocrisia”», 19 aprile, p. 37):
Sono ammessi regimi parafamiliari, ma senza alcun monito a fare presto: tutto è rimesso «nei tempi» (oltre che nei modi e nei limiti) che il Parlamento sceglierà. Non c’è alcun obbligo costituzionale ad intervenire: la Corte nega infatti l’esistenza attuale di una discriminazione a danno delle coppie gay.
[…] Ciò […] non vuol dire che il legislatore deve intervenire. Ma che solo il legislatore (e non la Corte) può regolare diritti e doveri della coppia gay […] l’effettività di quel riconoscimento è abbandonata alla «piena» discrezionalità del legislatore.
Più possibilista, ma sempre in chiave pessimistica, Marco Croce, dottorando di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa («Diritti fondamentali programmatici, limiti all’interpretazione evolutiva e finalità procreativa del matrimonio: dalla Corte un deciso stop al matrimonio omosessuale», Forum di Quaderni Costituzionali, 23 aprile 2010):
Il riconoscimento della condizione di coppia (così almeno sembra di poter interpretare il testo) è un obbligo costituzionale in capo al legislatore o il riferimento ai ‘tempi’ sta a significare che c’è piena discrezionalità anche sull’an dello stesso? Se così fosse, non si capisce perché usare il termine diritto fondamentale, visto che tale non può essere considerato un diritto che può essere riconosciuto o meno dal legislatore ordinario sulla base di una valutazione discrezionale. In sostanza si tratterebbe allora solamente della impossibilità per il legislatore di frapporre ostacoli, civili, amministrativi o penali, alle unioni omosessuali (diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia), senza nessun obbligo di addivenire a un riconoscimento – subito dopo si parla infatti di “aspirazione al riconoscimento”. E non ci si troverebbe dunque nemmeno dinanzi a un timido monito. Comunque sia, il periodo non appare per nulla chiaro.
E più avanti:
Piuttosto insoddisfacente, dal punto di vista della chiarezza e persuasività motivazionale, pure il punto 10, dove si ritorna a parlare della discrezionalità del legislatore in relazione al diritto di sposarsi e al diritto di farsi una famiglia sanciti dall’art. 9 della Carta di Nizza: anche in questo caso, come nel punto 8, non emerge esplicitamente alcun monito, dal momento che si dice solamente che, “Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento”. Ma, si ripete, discrezionalità anche nell’an? Soprattutto qui la Consulta non sembra aver colto le potenzialità della disposizione, che le avrebbero consentito almeno di dire chiaramente che, sebbene non esista un diritto al matrimonio degli omosessuali, istituto che, per come ricostruito nella decisione, è riservato ex art. 29 ai soli eterosessuali, esiste però un diritto a farsi una famiglia per gli omosessuali, che deve obbligatoriamente essere riconosciuto dal legislatore nella forma che discrezionalmente riterrà opportuna.
Ottimista invece è l’avvocato (e blogger) Luca Simonetti («Che cosa ha VERAMENTE detto la sentenza n. 138/2010 della Corte Costituzionale?», Karl Kraus, 22 aprile):
la Consulta dice – e questo sì è decisamente importante, e vedrete che avrà sempre più importanza in futuro – che le unioni omosessuali devono avere un riconoscimento giuridico, perché rientrano appunto fra le “formazioni sociali” costituzionalmente garantite ex art. 2 Cost.
Comunque la si pensi, si deve come minimo riconoscere che qui la Consulta è venuta meno – per prudenza? – al dovere morale di dire una parola chiara; ed è facile prevedere che su questa mancanza di chiarezza giocherà chi non intende concedere nulla alle coppie di persone omosessuali.
Se d’altra parte davvero la Corte ha ritenuto che non sussista in capo al legislatore un obbligo di concedere in tempi certi tale riconoscimento, allora la sentenza contiene – mi pare – un evidente paradosso: da un lato si afferma che la Corte in futuro potrà «riscontrare la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale» in relazione ad ipotesi particolari – cioè potrà, in concreto, dichiarare incostituzionali parti di un’eventuale normativa in quanto non rispettose dell’uguaglianza di diritti; dall’altro lato non si denuncia (almeno, non con parole chiare) la situazione attuale, in cui la normativa non esiste ancora e quei diritti non trovano perciò quasi nessun riconoscimento.

(1. Continua.)

Parole in libertà e diritti buttati nel cesso

Il dilemma è: scemità o malafede?

martedì 27 aprile 2010

Un dono per uno sconosciuto


È avvenuto molto raramente, negli ultimi anni, che un parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) si discostasse dalla più feroce intransigenza integralista. Uno di questi casi è recentissimo, e riguarda il parere espresso dal CNB sui cosiddetti «donatori samaritani», ovverosia persone viventi che donano organi o parti di organi (reni e fegato) a malati che non sono loro parenti o amici. Malgrado che la legge già permetta questo tipo di trapianto, la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva chiesto l’opinione del Comitato, dopo che notizie di stampa su persone che avevano chiesto di poter effettuare questo tipo di donazione avevano sollevato le proteste di una parte del mondo integralista.
Il parere, al momento, non è ancora disponibile sul sito del CNB, ma si sa già che è stato positivo (pur se con qualche limitazione, su cui eventualmente torneremo). Si assiste dunque in questi giorni allo spettacolo inedito di integralisti che criticano il CNB: per esempio Francesco D’Agostino, che del Comitato è stato a lungo presidente, («Il rischio di corrompere la nobiltà della donazione d’organi», Avvenire, 25 aprile 2010, p. 2). Ma qui voglio soffermarmi sulle critiche espresse nel comunicato stampa del 23 aprile emesso dal Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica, diretto da Adriano Pessina (che verosimilmente ha scritto o ispirato la nota), dove si legge fra l’altro:

La mutilazione del benefattore anonimo stravolge in realtà il significato stesso della donazione di organi da vivente, ammessa, in via eccezionale, laddove esistano relazioni parentali ed affettive. Il concetto di dono, infatti, comporta per sua natura la relazione da persona a persona ed è dettato solo da motivazioni gravissime ed eccezionali.
È interessante notare il linguaggio emotivamente carico con cui si esprime la nota: «mutilazione» è un termine impreciso per il trapianto di rene, che non causa di norma una perdita di funzionalità al donatore vivente, e decisamente sbagliato nel caso del trapianto di fegato, in cui al donatore viene sottratto un lobo dell’organo, che poi si rigenera in breve tempo fino a raggiungere di nuovo le dimensioni originali.
Incomprensibile è poi quello che si dice del concetto di dono: sembra evidente, anche se non è specificato, che ci si stia riferendo in particolare al dono di organo, visto che esistono ovviamente anche doni fatti per motivazioni leggere e ordinarie; ma in ogni caso rimane il fatto che il concetto di dono è inseparabile da quello di gratuità, e che tanto più stretti sono i legami – come appunto quelli familiari – che ci avvincono a una persona tanto meno gratuito dovrà essere considerato un atto come quello di cui qui parliamo. In effetti, a ben vedere, il vero problema si ha con la donazione di organi fra congiunti, dove è possibile che si creino situazioni di pressione psicologica da parte di altri familiari (il caso tipico è quello di genitori che inducono un figlio a donare a un altro figlio) che i medici possono avere difficoltà a individuare e gestire, e dove comunque a predominare sarà il desiderio – ovviamente più che legittimo – di non perdere un congiunto. Controllare la gratuità delle motivazioni di un donatore samaritano è invece un compito banale: basta fare in modo che il donatore non sappia in anticipo a chi andrà il suo organo.
Ma soprattutto avallare questa impostazione, dal punto di vista antropologico e culturale, significa fare propria l’idea che il corpo sia un semplice composto di parti e non l’espressione dell’identità personale. […] Risulta inoltre inquietante la sottesa concettualizzazione di una soggettività totalmente “spiritualizzata” che qui emerge. Mentre, da un lato, si pensa al corpo come a un rivestimento assolutamente neutrale rispetto all’identità personale, dall’altro, dietro la veste, che si vuole immacolata, della donazione, non ci si interroga sui vissuti complessi e magmatici di persone autorizzate da un comitato nazionale di etica a pensarsi in modo dualistico.
Anche qui non è facile capire di cosa stia parlando la nota. Più in particolare, quando afferma che il corpo è parte inscindibile dell’identità personale, cosa intende con quest’ultima espressione? Si riferisce forse al problema della continuità dell’Io, di cosa fa sì che si possa dire, per esempio, che noi siamo la stessa persona che eravamo a cinque anni di età? I filosofi si sono posti effettivamente il quesito di che ruolo abbia il corpo nella persistenza di una stessa persona attraverso il tempo: se per esempio fossimo sottoposti a un trapianto di cervello la nostra identità personale continuerebbe nel nuovo corpo in cui si trova adesso il nostro cervello, o rimarrebbe nel vecchio corpo (se questo è stato dotato a sua volta di un nuovo cervello)? Le risposte variano, ma che io sappia nessuno ha mai sostenuto seriamente che sottraendo al corpo un organo o una parte non indispensabili alla vita si interrompa la continuità della persona. In caso contrario dovremmo pensare che anche facendosi togliere le tonsille un individuo perderebbe la propria identità, il che sembra decisamente assurdo.
Per identità personale si può indicare anche la somma delle proprietà che fanno di noi quello che siamo, e che possono variare nel tempo; in questo senso, diverso dal primo, si può dire che siamo persone differenti da come eravamo a cinque anni, essendo variati i nostri gusti, le nostre conoscenze e anche il nostro corpo. Non c’è dubbio che in questo senso una persona che abbia donato un suo organo sia diversa da come era in precedenza; ma risulta impossibile comprendere perché ciò dovrebbe essere considerato a priori un male, visto anche che la trasformazione è, sia nel caso della donazione di rene sia in quella di fegato, quasi impercettibile, e scompare di fronte a cambiamenti più radicali, come cambiare fede politica o religiosa o sottoporsi a un intervento di chirurgia estetica.
Queste considerazioni sono del tutto indipendenti da una visione dualistica o monistica della persona umana; è comunque sorprendente vedere un’istituzione cattolica accusare altri di fomentare una visione dualistica, dopo che per duemila anni il cristianesimo ha fatto propria e propagandato una concezione antropologica che, almeno nelle sue accezioni popolari, ha sempre operato una divisione assai netta fra anima e corpo.

La nota del Centro di Bioetica è significativa anche per quello che non dice, forse di più che per quello che dice. Mentre ci si interroga freddamente sui «vissuti complessi e magmatici» dei donatori, insultando persone generose che fino a prova contraria vogliono semplicemente fare dono di sé (e qui viene inevitabilmente in mente la frase evangelica delle perle e dei porci...), non una parola viene spesa per le vite umane che potrebbero essere salvate se si accettassero – ripeto: come già prevede la legge – questo tipo di donazioni. L’Ideologia della Vita, come tutte le ideologie, privilegia l’astratto a danno del concreto, la purezza del «punto di vista antropologico e culturale» più delle sofferenze dei malati, e rivela infine in questo modo il suo vero volto di ennesima Ideologia della Morte.

domenica 25 aprile 2010

Gianni Gennari e il nono comandamento


Io l’avevo consigliato a Gianni Gennari di prendersi una vacanza dalla scrittura; ma Gianni non mi ascolta, ed ecco i risultati («Confusioni, sfide e diversità di lunghe file», Avvenire, 24 aprile 2010, p. 35):

“Corsera” (10/4, p. 15): Emilia Costantini riporta, forse con qualche allegria, Liliana Cavani sulla condizione della donna nella società, e la nota regista accusa la Chiesa cattolica con secco argomento: «Basti dire che uno dei comandamenti recita così: non desiderare la donna d’altri. Non c’è un comandamento che dica non desiderare l’uomo di altre»! Tu ricordi che nella Bibbia il testo di quel comandamento non è così e la questione storica è complessa, legata alla lunga disputa sulle immagini nel secondo comando, non più presente nel Catechismo. Qualche informazione, prima delle solite accuse alla Chiesa, sarebbe utile. In persone stimate per cultura e onestà la confusione spiace ancor più.
Tu, a differenza di Gianni Gennari, ricordi invece che il testo di quel comandamento è proprio così, e per essere sicuro te lo vai a cercare sull’ultima edizione della Bibbia della Cei (la Conferenza Episcopale Italiana, che sarebbe in pratica anche l’editore del giornale su cui scrive Gennari) del 2008. Del Decalogo esistono nella Bibbia due versioni: la prima si trova in Esodo 20,2-17, la seconda in Deuteronomio 5,6-21. In Esodo 20,17, dunque, il comandamento recita così:
Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo
In Deuteronomio 5,21 leggiamo:
Non desidererai la moglie del tuo prossimo. Non bramerai la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica (p. 553), infine, il nono comandamento ha precisamente la forma in cui lo cita Liliana Cavani: «Non desiderare la donna d’altri» (in ebraico la parola ’isshah significa sia «donna» sia «moglie»). Ma allora cosa diavolo sta dicendo Gennari? E perché tira in ballo il secondo comandamento?
Il problema nasce dal fatto che nell’originale ebraico il Decalogo non è numerato, e che i comandamenti possono essere divisi in modo differente. Alcune delle tradizioni religiose che si basano sull’Antico Testamento, come le Chiese Ortodosse e alcune Chiese Riformate, separano il comandamento «Non avrai altri dèi di fronte a me» da «Non ti farai idolo né immagine alcuna»; ma allora, per fare tornare i conti, debbono unificare i comandamenti riguardo al desiderio della donna e della roba d’altri. Altri, come la Chiesa Cattolica e i Luterani, unificano i primi due comandamenti, e mettono in un comandamento a parte, il nono (basandosi sulla versione del Deuteronomio piuttosto che su quella dell’Esodo) la proibizione di desiderare la donna d’altri (su Wikipedia si può trovare un utile specchietto riassuntivo). L’enfasi posta sul comandamento di non farsi immagini è servita ad alcune Chiese Riformate per condannare l’uso che delle immagini sacre si fa nella Chiesa Cattolica (che infatti, nella versione del Decalogo presente nel Catechismo, glissa prudentemente su questa proibizione).
Se si volesse a tutti i costi dare un senso alla tirata di Gianni Gennari, bisognerebbe concludere che il polemista di Avvenire ha scambiato il Decalogo di Ortodossi e Riformati con quello della Chiesa Cattolica (anche così però le cose non tornerebbero molto, perché il testo è sì diviso in modo diverso, ma il contenuto è identico: sempre di «non desiderare la donna d’altri» si parla). In ogni caso, non posso che reiterare il mio invito: che Gennari si prenda una lunga vacanza. Ne ha urgente, urgente bisogno.

sabato 24 aprile 2010

Il femminismo s’è infranto sulla Scaraffia

È nel complesso piuttosto scialbo l’articolo che Lucetta Scaraffia ha dedicato l’altro ieri alla «sconfitta» del femminismo («Il femminismo s’è infranto sulla maternità», Il Riformista, 22 aprile 2010, p. 17); ma verso la fine riaccende improvvisamente l’attenzione del lettore.

Certo, è difficile per donne che hanno fatto dell’aborto un diritto sul quale si fonderebbe la cittadinanza femminile, passare poi a chiedere aiuti per la maternità: dal punto di vista ideologico la contraddizione è evidente, e infatti non è mai avvenuto.
Lasciamo da parte l’impossibile verifica empirica della tesi (come fa la Scaraffia a sapere che nessuna sostenitrice del diritto di abortire ha mai chiesto aiuti alla maternità?); lasciamo stare anche la difformità dei due diritti, per come si sono configurati storicamente nel nostro paese (diritto negativo – l’aborto legalizzato – e al tempo stesso positivo – l’aborto gratuito – il primo; diritto solo positivo il secondo). Quello che colpisce è che per la Scaraffia chi vuole l’aborto non può volere al tempo stesso i bambini; il concetto di maternità responsabile – che pure non sembrerebbe estraneo alle lotte femministe del passato – le sembra sconosciuto. Certo, l’aborto sarà anche uno strumento per chi (del tutto legittimamente) non vuole o non può avere figli; ma com’è possibile ignorare che esso sia anche – e soprattutto – uno strumento per chi di figli ne vuole un certo numero, in un certo tempo, a certe condizioni?
Proseguendo nella lettura la sorpresa aumenta:
Come è difficile per chi ha difeso a oltranza la rivoluzione sessuale – e quindi la possibilità anche per le donne di comportarsi con la libertà degli uomini, facendo anche di questo uno dei fulcri dell’ideologia della liberazione – passare poi a criticare le donne seminude che compaiono a tutte le ore sullo schermo televisivo. E a ben vedere, nonostante i tentativi di farlo, da questo punto di vista è contraddittorio anche criticare le donne-tangente, le veline che finiscono nel letto di Berlusconi: l’unica cosa che fa orrore, sembra, è che si tratti di Berlusconi... è difficile criticare il contesto in cui questo avviene se non c’è il nemico numero uno di mezzo. In fondo, si tratta di libere scelte, di libera disponibilità del proprio corpo, corredata ovviamente dall’uso di moderni anticoncezionali e, nel caso, di ricorso all’aborto...
Davvero le femministe e chi «ha difeso a oltranza la rivoluzione sessuale» si contraddirebbero a criticare veline ed escort? Vendersi al potente di turno è una novità generata dalla liberazione sessuale? È frutto dell’eguaglianza finalmente conquistata? Quanti maschi conosce la Scaraffia che per salire a posizioni di potere sono stati costretti (o si sono costretti) a prostituirsi? Ma soprattutto: come fa l’illustre editorialista a pensare che chi ha rivendicato o rivendica la possibilità di vivere liberamente la propria sessualità debba essere al tempo stesso indifferente a ogni altro valore – per esempio che le posizioni di responsabilità vanno assegnate in base al merito e non alla capacità di seduzione?
C’è in effetti un meccanismo comune alla base delle opinioni che la Scaraffia esprime in questo articolo: chi è per l’aborto, e quindi per la possibilità di non far nascere un figlio, sarebbe per ciò stesso sempre contrario a far nascere un bambino; chi è a favore di una sessualità vissuta senza eccessivi pudori sarebbe per ciò stesso sempre entusiasta per qualsiasi uso del proprio corpo si possa fare. Con la stessa logica si potrebbe dimostrare che i gastronomi sono a favore dell’obesità e che chi chiede il porto d’armi è a favore della rapina a mano armata.
Alla fine viene un atroce sospetto: non sarà che il femminismo in Italia è fallito perché a suo tempo ha imbarcato anche donne come Lucetta Scaraffia?

venerdì 23 aprile 2010

Matrimoni per persone dello stesso sesso

Un commento interessante di Persio Tincani (Matrimonio omosessuale, se il codice civile prevale sulla Costituzione, Micromega):

La vicenda del matrimonio omosessuale in Corte costituzionale si è conclusa nel modo che in molti prevedevano, cioè con un sostanziale rigetto delle questioni di costituzionalità rimesse dalla corte d'appello di Trento e dal tribunale di Venezia. Che la decisione fosse, in questo senso, prevedibile non ha, però, nulla a che vedere con la questione in sé (il matrimonio omosessuale è compatibile con la Costituzione?) e molto a che vedere con il fatto che non dobbiamo fingerci vergini, del tipo di quelle convinte che ci sia sempre un giudice a Berlino. Che la Corte avrebbe respinto le questioni, insomma, eravamo più o meno tutti ragionevolmente certi, tanto i favorevoli al matrimonio omosessuale, ovvero la stragrande maggioranza dei giuristi italiani, quanto la minoranza dei giuristi contrari.

Tutti o quasi tutti, infatti, consideravano assai improbabile che la Corte avrebbe deciso nel senso dell'ammissibilità del matrimonio omosessuale, in quanto la questione è stata caricata (non importa adesso quanto ciò sia stato fatto ad arte) di un significato politico pressoché esclusivo, che ha finito per far passare nelle retrovie il fatto che si tratti, come ogni altra questione posta di fronte alla Consulta, di una faccenda di leggi e di diritto.

Al di là delle argomentazioni sostenute da ciascuno per la tesi della fondatezza o dell'infondatezza dei particolari rilievi di costituzionalità presenti nei due atti con i quali le corti hanno posto la questione di fronte alla Consulta, e ancor di più al di là degli argomenti che ciascuno adduce per l'ammissibilità o per l'inammissibilità del matrimonio omosessuale nel nostro ordinamento, nessuno avrebbe scommesso sul fatto che una parola definitiva sarebbe stata pronunciata dalla Corte in merito.

Ciò che stupisce, quindi, non è che la Corte abbia dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità, ma il modo in cui lo ha fatto, cioè con una sentenza, la n.138 2010 (15 aprile), assai criticabile, sia sotto il profilo della tecnica giuridica, sia sotto il profilo della mera coerenza argomentativa. I passaggi argomentativi fallaci o discutibili della sentenza sono molti. Qui mi limito a segnalarne uno.
Continua.

mercoledì 21 aprile 2010

Di Pietro e Tavella: io non capisco

Beach Cow
Qualche giorno fa un articolo di Susanna Tamaro ha avviato un dibattito sul femminismo e sulle libertà delle donne. Non voglio affrontare il dibattito per intero o provare a rispondere alla questione se oggi le donne siano più o meno libere di un tempo oppure quanto siano libere.
Ma voglio commentare il pezzo di due nostre vecchie conoscenze: Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, La libertà femminile e il fallimento delle istituzioni, Il Corriere della Sera, 21 aprile 2010. Sottotitolo: Negli altri Paesi d’Europa i movimenti libertari hanno coinvolto larghe fasce della popolazioni, in Italia no.
Le autrici sembrano contente del fatto che

Negli altri paesi d’Europa i movimenti libertari hanno coinvolto larghe fasce della popolazioni, attraversato partiti e istituzioni, ammodernato mentalità, pratiche politiche, e anche legislazioni che sono state sentite e attuate.
Continuano elencando le conquiste che, nonostante questo non sia accaduto in Italia, le donne italiane hanno ottenuto: dalla legge sui salari ai congedi parentali (pur nella loro imperfetta applicazione) ai profondi cambiamenti delle mentalità.
Le leggi hanno funzionato solo in parte, eppure in altri e decisivi livelli dell’esistenza femminile avvenivano cambiamenti radicali che hanno innovato gli stili di vita di tutti, uomini donne e bambini. Famiglie allargate, libertà di scelte sulla salute, percorsi spirituali, imprenditoria femminile, formazione, difesa della scuola, integrazione degli stranieri, volontariato, cura della terra e dell’ambiente sono tutti settori della vita individuale e sociale dove la libertà è misurabile ed è superiore a quella di vent’anni fa. L’hanno allargata e coltivata le donne, senza leggi che lo comandassero, e si è trasformata in un vantaggio per tutti.
Condivisibile o no la loro interpretazione. Ma ancora non è questo il punto. La questione è la posizione di Di Pietro e Tavella nei confronti della legge 40 e soprattutto del referendum che ne è seguito.
Come può conciliarsi la legge 40 con la libertà delle donne? Una legge che le tratta come povere sceme perché decide al posto loro e elenca molti divieti, ingiustificati e ingiustificabili. Ma la posizione di Di Pietro e Tavella è molto lontana. In Madri Selvagge (qui la mia recensione al libro) descrivono le tecniche di riproduzione assistita come «una galleria di orrori, [...] storie di donne che subiscono ogni sorta di tortura pur di avere figli» (pp. 6-7). Avvertono il pericolo di non riconoscere il nemico patriarcale insito nella separazione tra riproduzione e corpo femminile (p. 7), ricordano la definizione delle biotecnologie come olocausto per le donne (p. 8), denunciano la congiura maschile volta a prendere il controllo della riproduzione riducendo il corpo femminile a ‘carne da riproduzione’ (p. 8). Paragonano la procreazione assistita alla lotta armata: entrambe renderebbero vittime le donne. Esprimono il proprio sospetto verso la legge 40 in nome dell’inimicizia per le leggi sul corpo delle donne: ma viene da domandare a Di Pietro e Tavella, esiste forse una legge che invade tanto il corpo delle donne quanto la legge sulla procreazione medicalmente assistita? Una legge tanto paternalista? Illiberale?
Quanto scrivevano nella lettera in cui spiegavano le ragioni dell’astensionismo al referendum suddetto (che non raggiunse il quorum) rende ancora meglio il profilo delle due femminste libertarie. Io non capisco come una legge che tratta le donne come incapaci di capire e di decidere e impone loro sofferenze evitabili possa essere difesa.
E in effetti non compare nell’elenco delle conquiste. Lo avevano anticipato però:
ci rassegniamo temporaneamente alla legge 40 perché, sia pure attraverso un percorso che non condividiamo, è cauta quanto noi siamo caute e limita pratiche che ci inquietano.
Capito? Loro non condividono e sono inquiete. Noi ci teniamo la legge 40.

La sindonologa


Andrea Nicolotti recensisce per L’Indice dei libri del meseL’ostensione val bene una bufala, anzi due», aprile 2010) i due volumi di Barbara Frale pubblicati nel 2009 dalla casa editrice il Mulino a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro (La sindone di Gesù Nazareno e I Templari e la sindone di Cristo). Il giudizio è severo:

Il lettore che non voglia fermarsi a una superficiale lettura dei pochi dati oggettivi si imbatterà in una serie di gravi forzature: la manipolazione delle fonti (come nel caso di un manoscritto medievale, la cui trascrizione è stata adulterata, o di una citazione di Nicola Mesarite, riportata in una scorretta traduzione “filo-sindonica”), la falsificazione o invenzione dei documenti (è il caso di una fonte araba, del tutto stravolta), le difficoltà linguistiche e filologiche (ignoranza dell’alfabeto e della grammatica ebraica, ad esempio), le mere ipotesi via via tramutate in certezze e la frequente imprecisione dei riferimenti bibliografici, che tradisce con evidenza il ricorso a citazioni di seconda o terza mano. Il disturbante accumularsi di altri errori fattuali (nomi, date ed eventi) sembra essere, a questo punto, il problema minore.
È triste che un editore prestigioso come Il Mulino si sia prestato a un’operazione di questo genere. La Sindone è un falso medievale, come è stato dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio – ma non, ahimè, al di là di ogni dubbio irragionevole.
(Per saperne di più sulla Sindone e sui libri di Barbara Frale consiglio vivamente questo sito.)

domenica 18 aprile 2010

Affermazioni memorabili

Ma l'ipoteticità delle leggi scientifiche significa ad esempio che un corpo, abbandonato a sé stesso, da un momento all'altro, invece di cadere verso il basso potrebbe andare verso l'alto.

E la fede è ipotetica come le leggi della scienza.

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Sul sito per il lancio di Famiglia Cristiana le foto di piccoli con due papà


Sul sito per il lancio di Famiglia Crisitana le foto di piccoli con due papà. Iniziativa promozionale, di Monica Ricci Sargentini, Il Corriere della Sera, 18 aprile 2010 (ovvero imprevisti familiari...).

MILANO — Dov’è la famiglia? È la domanda provocatoria della campagna pubblicitaria per il lancio della nuova Famiglia Cristiana, il settimanale edito da Periodici San Paolo in edicola dal 15 aprile completamente rinnovato. Tra le iniziative: stickers con effetto murales apparsi sui muri delle periferie abbandonate, spot tv e un sito dove le famiglie normali, «quelle ignorate da politica e tv», potevano inviare la loro foto. L’idea era di dare una rappresentazione dell’Italia reale, lontana dai reality e dalle riviste patinate. E in quell’Italia ci sono finite anche le famiglie arcobaleno. Due papà che spengono le candeline insieme ai figli, due mamme che sorridono abbracciando il loro bimbo, due ragazze in gita con i loro quattro piccoli e tanti altri erano visibili sul sito fino a venerdì sera. «All’inizio non sapevamo di partecipare alla campagna pubblicitaria di Famiglia Cristiana perché il sito era anonimo — racconta Maria Silvia Fiengo, addetta stampa dell’associazione Famiglie Arcobaleno —. Poi ci è arrivata una email che ci svelava l’identità dell’iniziativa. Dopo l’iniziale perplessità alcuni hanno deciso di lasciare comunque le proprie fotografie sul sito». Orgogliosi di essere stati pubblicati i genitori omosessuali avevano scritto un comunicato in cui, tra le altre cose, ringraziavano il settimanale «che, volendo illuminare la famiglia reale, ci ha permesso di partecipare il nostro essere profondamente famiglie».
Un ringraziamento per nulla gradito alla rivista cattolica che, non appena si è resa conto dell’accaduto, si è affrettata a togliere tutte le fotografie con due padri o due madri presenti sul sito. Tutte quelle riconoscibili, naturalmente. Perché, come sottolineano le famiglie arcobaleno, «chi sa individuare con certezza quali sono? Quali bambini, tra tutti quelli che compaiono sul sito, hanno due genitori dello stesso sesso o almeno un genitore omosessuale?». Difficile dirlo. Tanto che, nel dubbio, dopo 24 ore di riflessione, ieri il sito era definitivamente scomparso dalla rete.

Diversa la versione del direttore del settimanale Don Antonio Sciortino: «In vista del lancio della nuova versione on line di Famiglia Cristiana — spiega — avevamo aperto per due settimane un sito promozionale "tattico" (www.unanuovafamiglia.it) invitando, tra l’altro, i visitatori a inviarci una foto della loro famiglia. Ci è giunto di tutto. Internet, per sua natura, è uno spazio libero, dove ognuno può proporre quel che vuole. Anche visioni di "famiglia" che non ci appartengono. Ma non possono esserci dubbi sulla concezione che noi abbiamo di famiglia, in linea con i principi costituzionali e la dottrina della Chiesa. Il "sito tattico", finita la sua funzione promozionale, ora rimanda direttamente alla versione on line della rivista».
Famiglie Arcobaleno rivolge una domanda a Famiglia Cristiana: cosa farete delle nostre famiglie?

venerdì 16 aprile 2010

Gianni Gennari ha un grosso problema


L’infortunio, due giorni fa, segnalato in principio dal blog dell’UAAR, era stato di quelli clamorosi. Gianni Gennari (in arte «Rosso Malpelo»), notista del giornale dei vescovi italiani, Avvenire, scriveva nella sua rubrica giornaliera «Lupus in pagina» («Ipazia: donna cristiana e la storia fatta a fette», 14 aprile, 2010, p. 39):

Esce un film su Ipazia, donna di grande cultura barbaramente uccisa nel 415 ad Alessandria. Da chi e perché? Titoli e sommari con risposta secca: «Massacrata perché avversa al cristianesimo», «Martire uccisa dai cristiani», «Orrendamente uccisa dai cristiani», «Osò sfidare la Chiesa in difesa della scienza». Elementare! Però proprio sull’“Unità” leggi che Ipazia era «cristiana, ammirata anche dai suoi alunni cristiani... la memoria del suo insegnamento la apprendiamo dal suo allievo cristiano Sinesio, in seguito vescovo, che la chiamava sorella e maestra», e che un altro cristiano, Socrate Scolastico, scrisse che Ipazia «si presentava in modo saggio con magnifica libertà di parole e di azione». Cristiana, ammirata dai cristiani, uccisa «dai cristiani»?
Il punto interrogativo finale ci sta tutto, anche se non con l’intenzione con cui l’ha apposto Gennari; perché se si va a controllare l’articolo originale sull’Unità (Mariateresa Fumagalli, «Ipazia, la donna che osò sfidare la Chiesa in difesa della scienza», 13 aprile, pp. 38-39) si scopre che la parte iniziale della citazione di Avvenire corrisponde a questa frase: «Cosa insegnava Ipazia ammirata anche dai suoi allievi cristiani?». Di una Ipazia cristiana, in tutto l’articolo, non vi è la benché minima traccia, né vi può essere, dato che come tutti sanno Ipazia era pagana.
Spiegare un errore simile è difficile: la parola «cristiana» non compare nei pressi, e in tutto l’articolo si trova solo due volte, sempre unita a «religione». Un’allucinazione vera e propria, si direbbe.
Mi sono messo ad aspettare – senza troppe speranze, per la verità – una correzione, o un qualche altro tipo di passo indietro; e il giorno dopo Gennari è tornato sulla questione («Ipazia e il film “Agorà” a lei dedicato: tra pubblicità e pregiudizi», 15 aprile, p. 39). Nessun errata corrige, anche se adesso Ipazia viene definita una «gran donna del V secolo d. C., affascinante per vita e cultura». Niente «cristiana», stavolta: dobbiamo prenderlo per un segnale di resipiscenza? Ma in compenso...
solita musica su altre pagine, per esempio “Europa” (p. 10: «Tutti pazzi per Ipazia») ove Canfora di suo aggiunge due colpe tutte a carico della Chiesa: «la tragedia dell’incendio della Biblioteca di Alessandria» e il fatto che «Paolo, cofondatore della religione cristiana», scrisse ai Corinzi che «la donna deve restare muta». Che dire? In realtà la colpa dell’incendio fu degli stessi «parabolani», antico esempio di fondamentalismi ancor oggi sanguinanti nel mondo, e non della Chiesa alla quale si deve il salvataggio di tutti i documenti delle culture antiche: tutti!
Resi sospettosi dal precedente e dal giudizio inusualmente tranchant attribuito a Canfora, andiamo a cercarci pure l’articolo di Europa (Paola Casella, 14 aprile, pp. 4-5; l’articolo è presente nella rassegna stampa dell’Istituto Treccani):
Fra gli altri meriti di Agora, che entrambi gli studiosi ritengono filologicamente attendibile, a parte qualche piccola licenza poetica, c’è quello di ricordare la tragedia dell’incendio della biblioteca di Alessandria, sempre ad opera dei Parabolani. «A quei tempi non esisteva l’industria editoriale, i libri erano tutte copie individuali tramandate grazie al lavoro degli amanuensi», ricorda Canfora. «La gravità di quella vicenda la capisce solo chi ha un’idea di come si diffondevano i libri nel mondo antico. Distruggere un patrimonio così, buttare nel fuoco un pezzo unico della cultura fu una vera follia».
Come si vede nel virgolettato attribuito a Canfora non c’è la benché minima imputazione alla Chiesa dell’incendio della Biblioteca, né lo studioso sembra contestare in alcun modo il ruolo attribuito dal film ai Parabolani.
Di nuovo: com’è possibile un simile errore? Probabilmente non lo sapremo mai; in ogni caso, sarebbe ora per Gianni Gennari di prendersi una lunga, lunghissima vacanza dalla scrittura e, soprattutto, dalla lettura.

Aggiornamento 19/4: Gennari si corregge su Avvenire di ieri: «Correggo: Ipazia, la donna sapiente che nel V secolo affascinò tutta Alessandria, non era cristiana». Niente scuse a Canfora, per ora, che anzi il giorno prima definiva «marxista irriducibile risciacquato in letture greche e latine», con tutta la sguaiataggine di cui solo certi cattolici sono capaci.

giovedì 15 aprile 2010

Lettura creativa di una sentenza


Assuntina Morresi, membro del Comitato Nazionale per la Bioetica, non ha dubbi («Fecondazione eterologa, legge 40 “blindata”», Avvenire, 15 aprile 2010, inserto È vita, p. I):

La legge 40, che regola in Italia la procreazione medicalmente assistita, non è nemmeno sfiorata dalla recente sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, quella che ha stabilito l’illegittimità del divieto di fecondazione eterologa (cioè con gameti esterni alla coppia) per due coppie austriache
e passa quindi a spiegarci il perché di tanta sicurezza:
il pronunciamento della Corte europea non ha niente a che fare con la normativa vigente in Italia perché si riferisce a una incoerenza – secondo la Corte – interna alla legge austriaca, che consente la fecondazione eterologa solo in alcuni casi, a differenza della legge italiana che, invece, la vieta sempre. […]
[La fecondazione eterologa] in Austria è consentita per donatori maschili nel caso dell’inseminazione semplice, quando cioè il liquido seminale è inserito nel corpo della donna […] non c’è dubbio che, una volta ammessa un’eccezione, il divieto all’eterologa diventa parziale, e la Corte ha avuto buon gioco nel sostenere l’incoerenza interna alla normativa.
La sentenza del tribunale europeo si basa sul ricorso di due coppie affette da sterilità in modo differente, una delle quali richiedeva l’intervento di un donatore maschile, consentito nella procedura in vivo ma vietato nel caso in questione, che ne richiedeva una in vitro. La Corte si è pronunciata quindi sulla presunta discriminazione della legge austriaca tra donatori di gameti maschili (qualche volta consentiti) e femminili (sempre vietati), ha giudicato incoerente la differenza fra i percorsi ammessi, e ha concluso che esiste una discriminazione fra le coppie, che in Austria possono ricorrere all’eterologa o meno a seconda del tipo di infertilità, argomentando invece in favore della possibilità di ricorrere sempre alla donazione di gameti da parte di esterni alla coppia.
Parlare di una sentenza che dà «l’ennesimo colpo alla legge 40», come hanno titolato diversi giornali italiani, è quindi inesatto e fuorviante: la nostra legge è coerente al suo interno, perché l’eterologa è sempre vietata.
Spiace infrangere le certezze della Morresi, ma le cose non stanno così.
I casi esaminati dalla Corte sono due: nel primo la donna soffriva di infertilità per una disfuzione delle tube di Falloppio, mentre il marito non era in grado di produrre sperma; per poter concepire un figlio la coppia avrebbe dovuto far fecondare gli ovociti della donna in vitro con lo sperma di un donatore, ma la legge austriaca, come spiega correttamente la Morresi, consente la donazione di sperma solo se la fecondazione avviene in vivo e non in vitro. Nel secondo caso la donna era totalmente incapace di produrre ovociti mentre il marito poteva produrre sperma; per poter concepire un figlio la coppia avrebbe dovuto quindi ricorrere a una donazione di ovociti, proibita però dalla legge austriaca.
Ora, nel primo caso, la Corte effettivamente argomenta in base all’incoerenza della proibizione fra i due tipi di donazione di sperma (che in effetti appare abbastanza cervellotica); ma nel secondo caso le cose sono assai differenti. Vediamo cosa dice la sentenza (i corsivi sono tutti miei):
the Court has to examine whether the difference in treatment between the third and fourth applicants and a couple which, for fulfilling its wish for a child may make use of artificial procreation techniques without resorting to ova donation, has an objective and reasonable justification […]
The Court considers that concerns based on moral considerations or on social acceptability are not in themselves sufficient reasons for a complete ban on a specific artificial procreation technique such as ova donation. Such reasons may be particularly weighty at the stage of deciding whether or not to allow artificial procreation in general, and the Court would emphasise that there is no obligation on a State to enact legislation of the kind and to allow artificial procreation. However, once the decision has been taken to allow artificial procreation and notwithstanding the wide margin of appreciation afforded to the Contracting States, the legal framework devised for this purpose must be shaped in a coherent manner which allows the different legitimate interests involved to be taken into account adequately and in accordance with the obligations deriving from the Convention. […]
In conclusion the Court finds that the Government have not submitted a reasonable and objective justification for the difference in treatment between the third and fourth applicants, who are prevented by the prohibition of ova donation for artificial procreation under Section 3 of the Artificial Procreation Act from fulfilling their wish for a child, and a couple which may make use of artificial procreation techniques without resorting to ova donation.
Come si vede, il contrasto è sempre tra donazione di ovociti e procreazione medicalmente assistita in generale; proibire la prima (come fa l’Italia) è incoerente, per la Corte, se si permette (di nuovo come fa l’Italia) la seconda. Della donazione di sperma per la fecondazione in vivo non si parla nemmeno una volta, al contrario di ciò che si fa nel caso dell’altra coppia:
the Court has to examine whether the difference in treatment between the first and second applicants who, for fulfilling their wish for a child could only resort to sperm donation for in vitro fertilisation and a couple which lawfully may make use of sperm donation for in vivo fertilisation, has an objective and reasonable justification
Si compari questa frase con quella analoga usata per la seconda coppia: la logica, tenendo conto che il linguaggio giuridico non viene mai usato a caso, è chiara. (Va da sé che se l’Austria avesse proibito come l’Italia ogni forma di donazione di gameti, la Corte avrebbe applicato anche alla prima coppia gli argomenti usati per la seconda.) Forza dunque con i ricorsi!

martedì 13 aprile 2010

Le storie di Messori


Tutto comincia con un articolo di Vittorio Messori sul Corriere della SeraDa Zola a Internet l’eterno duello su Lourdes», 23 febbraio 2010, p. 31), dedicato alle reazioni di tre campioni della cultura laica francese dell’Ottocento – Auguste Voisin, Émile Zola, Ernest Renan – di fronte alle guarigioni apparentemente inspiegabili di Lourdes. In particolare, scrive Messori riguardo a Zola:

Ecco ora Emile Zola, il maestro del naturalismo ateo. Deciso a smascherare «l’impostura dei preti», nell’agosto del 1892 si imbarcò sul treno dei malati del Pellegrinaggio Nazionale. Stette a Lourdes una decina di giorni, ma passò solo due ore al Bureau medico. Eppure, cosa straordinaria, in quel tempo brevissimo si presentarono due donne sanate in modo spettacolare. […] Marie Lebranchu […] si offerse come parte lesa nel processo per diffamazione contro Zola che molti chiedevano a gran voce. In effetti, le testimonianze sono unanimi: sul marciapiede della stazione di Parigi, lo scrittore l’aveva osservata sulla barella e aveva esclamato: «Se questa guarisce, io crederò». Il fatto è che «la Grivotte», come la chiamò nel suo romanzo, guarì davvero e fu portata essa pure al Bureau in quelle due ore in cui vi era Zola. Ridotta a 30 chili, tisica all’ultimo stadio, coperta di piaghe purulenti, quando fu immersa nell’acqua fu scossa una brivido impressionante, allontanò con forza le infermiere che la sostenevano e andò, sulle sue gambe, fino alla Grotta. Quando Zola la vide guarita, tutti osservarono che, divenuto pallido, barcollò. Ciò non gli impedirà di parlare […] di una assurda «guarigione nervosa», seguita poi da una ricaduta e dalla morte al ritorno a Parigi. E invece, la vera Grivotte visse ancora 30 anni, si sposò […], ebbe due figli e divenne inserviente al grande magazzino Au bon marché. Imbarazzato dalle lettere ai giornali della miracolata, che non sopportava la mistificazione, Zola andò a trovarla nella sua soffitta e le propose di pagarla bene se accettava di trasferirsi nel Belgio, smettendola con le denunce pubbliche. In quel momento, tornò il marito, solido operaio, che buttò il romanziere giù per le scale, gridando: «Va al diavolo, falso scribacchino!». I giornali riferirono la clamorosa scenata.
Messori si guadagna quasi subito l’impetuosa risposta di Pierluigi Pellini (professore associato di Letterature comparate all’Università di Siena e curatore del Meridiano Mondadori dedicato a Zola), prima in forma sintetizzata sul Fatto QuotidianoChi ha paura di Émile Zola», 13 marzo, p. 18), poi più estesa su Nazione IndianaBufale dei Pirenei», 14 marzo), da cui cito:
È vero che nell’estate del 1892, durante un viaggio nel sud della Francia con la moglie Alexandrine, Zola si fermò una dozzina di giorni a Lourdes, in concomitanza con il Pellegrinaggio Nazionale, per prendere appunti in vista di un romanzo dedicato alla città di Bernadette. E tuttavia Zola e signora si guardarono bene dal viaggiare su un treno di pellegrini: la sera del 18 agosto, alla gare d’Orléans (l’attuale gare d’Austerlitz), salirono a bordo di un confortevole sleeping car del «Pyrénées-Express». Messori attribuisce allo scrittore le vicende (immaginarie) di Pierre Froment, il protagonista del romanzo Lourdes (1894): confondendo con superficialità disarmante vita e invenzione romanzesca. E condisce l’aneddoto riesumando senza alcun vaglio critico le calunnie mirabolanti diffuse da personaggi ambigui e interessati come il dottor Boissarie (il medico incaricato, a Lourdes, di constatare le guarigioni miracolose) e padre Lasserre (il primo biografo di Bernadette), e riprese con strepito dalla stampa clericale dell’epoca.
Delle «unanimi» testimonianze invocate da Messori non c’è traccia nei documenti d’archivio e nei libri di studiosi seri dedicati all’argomento: nell’ottima edizione del romanzo curata da Jacques Noiray per «Folio» nel 1995, nella monumentale biografia (Zola, tremila pagine in tre volumi, a tratti prolisse ma impeccabilmente documentate) pubblicata da Henri Mitterand per Fayard fra il 1999 e il 2002, nel bel libro dell’antropologa Clara Gallini (Il miracolo e la sua prova. Un etnologo a Lourdes, Liguori, 1998). Né poteva esserci: trattandosi di pure e semplici invenzioni. Messori le copia da un libro pubblicato in Francia nel 1957 e tradotto da Mondadori l’anno successivo, Cento anni di miracoli a Lourdes di Michel Agnellet: un volume apologetico, privo di qualsiasi attendibilità storico-filologica. Del resto, della favola di Zola corruttore nella soffitta di Marie Lebranchu si era già appropriato nel suo Ipotesi su Maria (Edizioni Ares, 2005), da dove la riprende un altro giornalista digiuno di metodo storico, Antonio Socci, in un pezzo intitolato La Madonna sconvolge gli intellettuali, su «Libero» del 19 febbraio scorso.
Segue la piccata risposta di Messori («Ancora su Zola e Lourdes») che, con incomprensibile villania, evita persino di nominare Pellini; risposta destinata inizialmente al Corriere, e poi dirottata sul prossimo numero del settimanale cattolico Il Timone. Pellini replica sempre su Nazione IndianaBufale ultimissime», 11 aprile).
Vorrei esaminare qui un punto della risposta di Messori che Pellini non analizza nella sua replica. Scrive Messori:
C’è poi il Lourdes pubblicato nel 1999, in inglese (edizioni Allen Lane-Penguin) da Ruth Harris, docente di storia a Oxford, ebrea e agnostica, specialista di letteratura francese dell’Ottocento. A pag. 423, l’insospettabile Harris giudica «storico» l’episodio della visita di Zola.
Questo punto mi ha incuriosito, perché l’unica fonte dell’episodio è ovviamente Marie Lebranchu, che non si vede bene perché considerare credibile a priori; sono andato dunque a controllare cosa scrive la Harris. La p. 423 citata da Messori è una pagina di note; quella che ci interessa è la n. 52, che riporto integralmente:
Indeed, the story told is that Zola went so far as to visit Marie Lebranchu, to take her away from her poverty-stricken circumstances and to remove her to the heart of the Belgian countryside, where her presence would not destroy his reputation. See Philippe Aziz, Les Miracles de Lourdes: La Science face à la foi, p. 209.
Traduciamo:
In effetti, la storia che si raccontava è che Zola giunse al punto di far visita a Marie Lebranchu, per sottrarla alla sua condizione di povertà e trasferirla nel cuore della campagna belga, dove la sua presenza non avrebbe potuto distruggere la reputazione dello scrittore.
Come si vede, non c’è qui la benché minima traccia di un giudizio di «storicità»: story, in inglese, può avere il significato di «favola», «diceria», etc., come del resto l’ha anche storia in italiano. La Harris riporta una voce, senza esprimersi in proposito. Neppure nel passo del libro cui è collegata la nota troviamo nulla in questo senso (p. 336: «As has been said, however, Marie Lebranchu did not relapse, and Catholics never forgave him for the deceit», «Come abbiamo già detto, tuttavia, Marie Lebranchu non ebbe ricadute, e i Cattolici non gli perdonarono mai la falsità»). Se proprio volessimo a tutti i costi attribuire un giudizio alla Harris (cosa che personalmente non faccio), potremmo forse collegare il mancato perdono dei Cattolici alla circolazione della «storia»...

Sarebbe bastata una lettura appena attenta per evitare a Vittorio Messori questo infortunio, piccolo eppure forse indicativo. Ma la preda era troppo succosa – una studiosa «ebrea e agnostica»! – e la prudenza ha ceduto all’appetito.

lunedì 12 aprile 2010

Salva l’embrione (bianco)

C’è una bambina di 13 mesi, Rachel, che il 3 marzo scorso si sente male. C’è un padre che ha un permesso di soggiorno a singhiozzo, scaduto perché ha perso il lavoro poche settimane prima.
Manca la tessera sanitaria, e la bambina viene liquidata in seguito a una visita di 6 minuti al pronto soccorso dell’Uboldo di Cernusco sul Naviglio: entrata 00.39, uscita 00.45. Nonostante le medicine prescritte e somministrate, Rachel sta malissimo.
La famiglia, padre, madre e una sorellina di due anni e mezzo, torna al pronto soccorso.

«Il personale ci risponde che “la bambina ha la tessera sanitaria scaduta, non possiamo visitarla ancora o ricoverarla”», denuncia il [padre]. «Un fatto di una gravità assoluta — sottolinea l’avvocato della famiglia, Marco Martinelli — . Dobbiamo capire se esistono delle direttive precise per casi come questo».
[...]
Davanti al rifiuto dei medici, l’ex operaio diventa una furia. Urla, vuole attenzione. Qualcuno dall’ospedale chiama i carabinieri per farlo allontanare. Forse dall’altra parte della cornetta ricordano che pochi giorni prima all’ospedale di Melzo, stessa Asl, era morto un bimbo albanese di un anno e mezzo rimandato a casa dal pronto soccorso. L’intervento dell’Arma risolve momentaneamente la situazione: Rachel viene ricoverata in pediatria. Sono le 3 di notte, «ma fino alle otto del mattino nessuno la visita e non le viene somministrata alcuna flebo, nonostante nostra figlia avesse fortissimi attacchi di dissenteria e non riuscisse più a bere nulla», raccontano i genitori. Nel tono della voce rabbia e dolore si mischiano. La sera del giorno dopo la situazione è critica, tanto che oltre alla flebo accanto al letto spunta un monitor per tenere sotto costante controllo il battito cardiaco. Alle cinque e mezza il cuore della bambina si ferma, dopo 30 minuti di manovre di rianimazione viene constatato il decesso.
Specificare che la bambina sia nigeriana appare ripugnante. Lo è. E si inscrive in un panorama sempre più netto e sempre più osceno. Quel panorama in cui si riparla di clandestini, di tradizioni, di identità nazionale.
Quel panorama in cui la vita va difesa se ha un certo profilo razziale. Fa ancora più impressione pensare che nella ridente Lombardia una bambina (nigeriana? Macchissenefrega di che nazionalità sia!) viene lasciata morire, mentre si urla e si strepita e ci si oppone con tutte le forze alla interruzione volontaria di gravidanza, dove si obbliga a dare sepoltura agli embrioni abortiti e dove i valori cristiani sono sbandierati per racimolare potere e finanziamenti.
La vergogna non ha colore. La vergogna è ciò che meglio connota avvenimenti simili.

domenica 11 aprile 2010

«Abortirai con dolore». Le mie 100 ore di strazio tra leggi e obiettori

Ore 9.00. Giovedì 25 marzo 2010. Appuntamento in un ospedale cattolico di Roma per l’ecografia morfologica al quinto mese di gravidanza. Arriviamo nella piena spensieratezza. Alle 9.30 ci chiamano e inizia la pratica dell’ecografia con l’invito del medico a “svuotare la vescica”. Da questo momento la mia vita non sarà più la stessa. La vita non è mai la stessa, di volta in volta, di respiro in respiro. Ci sono volte però in cui la vita si ferma, si spezza. Il feto è “malconcio”, non si è sviluppato il cervelletto, tetralogia di Fallot e altro. “Correte al San Camillo”. Ventiduesima settimana. Siamo strettissimi per i tempi legali dell’aborto terapeutico ammesso in Italia entro la ventiquattresima settimana. Per chi ne resta fuori un’alternativa è la Spagna. Esco dall’ospedale e dopo mesi che non lo faccio mi accendo una sigaretta e la fumo tremando. La nostra via crucis è iniziata.
Al San Camillo andiamo diretti agli uffici addetti alla 194. Non ci sono responsabili che firmino il ricovero e l’accettazione della “pratica”, non ce ne saranno fino a lunedì. Per ora non capisco bene cosa voglia dire, lo capirò nei prossimi giorni, quando mi imbatterò nel sistema intermittente “obiettori-non obiettori”, quindi nell’applicazione zoppa della 194, che prevede la costante presenza di non obiettori nei luoghi in cui la legge viene applicata. Si aprono le ipotesi, tutte fuori dal San Camillo: il Grassi di Ostia, il San Filippo Neri di Roma. Acquisisco il dato e mi incammino verso il San Filippo Neri. Sono le 13.30 del 25 marzo.
Questo è solo l’inizio del racconto di Monica Micheli, un racconto che non dovrebbe essere nemmeno immaginato, e che invece troppo spesso fa parte di una cronaca che sembra non fregare a nessuno. Se non i diretti interessati e i pochi che si incazzano per questa sofferenza evitabile e spietata.
Mi sembra superfluo commentare o aggiungere altro. Questo reportage dovrebbe bastare a denunciare lo schifo in cui questo Paese sguazza, un miscuglio di ipocrisia e crudeltà. E dovrebbe bastare per convincerci che l’interruzione di gravidanza non è affatto garantita in Italia. Dovremmo cambiare le tabelle che troviamo alla voce in rete “IVG nel mondo”. Somigliamo sempre di più al Nicaragua.

sabato 10 aprile 2010

Una minaccia per gli obiettori

Devo confessare di non essere un grande ammiratore di Piero Sansonetti: certe sue uscite, specie televisive, non mi hanno mai lasciato molto convinto. Ma l’articolo uscito ieri su Gli AltriL’obiezione dei ginecologi è un privilegio pagato dalle donne», 9 aprile 2010, p. 10) ha fatto alzare di una dozzina di tacche la mia stima dell’uomo. Senza esagerare: nessuno, in questi giorni, ha visto con altrettanta chiarezza cosa c’è dietro la forsennata opposizione alla pillola abortiva.

Qual è l’obiettivo del fronte – vasto e composito – degli anti-RU? L’obiettivo è salvare dalla disfatta l’esercito dei medici obiettori, cioè dei ginecologi che si rifiutano di collaborare all’aborto negli ospedali, e per questa via assumono un grande potere e condizionano la vita degli ospedali. La pillola RU rischia di indebolire molto questo fronte. Perché rende possibile l’interruzione volontaria della gravidanza con un ruolo ridottissimo del personale medico. Perciò la pillola è il nemico numero 1 dei medici obiettori, della Chiesa Cattolica (diciamo pure dei settori oltranzisti della Chiesa, che però sono molto potenti in Vaticano) e delle forze politiche che hanno deciso di giocarsi parte del loro futuro sulla scommessa pro-Vaticano. Perché la pillola RU è nemica degli obiettori? Perché gli obiettori hanno costruito la propria forza sulla capacità di ipotecare tutto il funzionamento dei reparti ginecologici degli ospedali. Come? Semplicemente con il fatto che quando l’obiezione raggiunge percentuali altissime (nel Lazio, ad esempio, siamo all’85 per cento, in tutt’Italia la media è circa del 70 per cento) si finisce per costringere la piccola pattuglia dei medici non obiettori a dedicare la gran parte delle loro forze nell’assistenza all’aborto. Rinunciando in questo modo alla carriera, alla ricerca, alla crescita della propria professione. E contemporaneamente si costringe l’ospedale a organizzarsi – orari, distribuzione dei letti in corsia, eccetera eccetera – sulla base dello squilibrio tra obiettori e non. La pillola RU, rendendo assai più semplice e meno invasiva l’interruzione della gravidanza, e riducendo di dieci volte la necessità di impegno diretto dei medici, è come se riducesse di 10 volte l’impatto di potere degli obiettori sulla struttura ospedaliera. E liberasse i medici non obiettori da un bel pezzo del loro giogo. Per questo è vista come uno strumento di potere – cioè, di smantellamento del potere – pericolosissimo, per i medici obiettori, per i politici che li proteggono, per la Chiesa, per le idee antiabortiste. Fino ad oggi i medici obiettori erano riusciti a rendere praticamente inapplicabile la legge 194. Comunque a ridurne moltissimo l’impatto. Fino ad oggi era una vera forzatura dire che l’Italia è un paese dove l’aborto è pienamente legittimo. Ora le cose potrebbero cambiare. Per questo si è scatenata la guerra alla RU.
Nell’articolo ci sono anche altre intuizioni notevoli, p.es. sulla ferocia come sostanza dell’antiabortismo, o sulle motivazioni dei politici clericali:
Una parte consistente della destra italiana ritiene che per dar vita a una nuova aggregazione di destra, che possa sopravvivere al berlusconismo, bisogna rilanciare una ideologia. E l’unica ideologia disponibile, in questi tempi di violenta crisi culturale, è il cattolicesimo integralista.
Da leggere tutto.

venerdì 9 aprile 2010

La fissa della croce


Soile Lautsi ha due figli di 11 e 13 anni. Nelle aule della scuola pubblica che i bambini frequentano è appeso un crocifisso. Come cittadina dello Stato italiano, Lautsi considera l’esposizione del crocifisso contraria alla laicità e alle libertà fondamentali. Prova a farlo presente alla scuola, ma il crocifisso rimane appeso alla parete. Allora si rivolge al tribunale amministrativo, ma si sente rispondere che il crocifisso sarebbe un simbolo della storia e della cultura italiane, dell’identità italiana e dei principi di uguaglianza, di libertà e di tolleranza - addirittura della laicità dello Stato. La controversia arriva fino al Consiglio di Stato, che nel febbraio 2006 rigetta il ricorso in quanto il crocifisso sarebbe diventato uno dei valori laici della Costituzione italiana e rappresenterebbe i valori della vita civile.

Il Mucchio Selvaggio, 669, aprile 2010.

lunedì 5 aprile 2010

Cota e Zaia, gli incostituzionali

La costituzionlista Tania Groppi, dell’Università di Siena, interviene autorevolmente sul problema delle competenze delle Regioni riguardo alla pillola RU486 («L’insostenibile leggerezza di Cota e Zaia», L’Unità, 3 aprile 2010, p. 19):

Le dichiarazioni di due neoletti presidenti di Regione che annunciano di voler bloccare la pillola abortiva Ru486 ci porta ancora una volta ad affrontare il rapporto tra politica e diritto. O meglio, tra una politica condotta a colpi di annunci clamorosi da parte di soggetti che si mostrano onnipotenti e le regole che ordinano la convivenza in uno Stato che deve, ancora e nonostante tutto, essere qualificato “di diritto”. Perché non sussiste dubbio che tale decisione esorbiti dalle competenze delle regioni, anche dopo la riforma costituzionale del 2001, che ha riconosciuto loro la competenza concorrente in materia di “tutela della salute”. La Corte costituzionale, interpellata a pronunciarsi su leggi regionali che miravano ad impedire l’utilizzo di una terapia “invasiva” come l’elettroshock, è stata chiarissima: stabilire il confine tra terapie ammesse e non ammesse, sulla base delle acquisizioni scientifiche e sperimentali, rientra tra i principi fondamentali di competenza dello Stato, in quanto tocca diritti – quello di essere curato efficacemente e di essere rispettato come persona – la cui tutela deve avvenire in condizioni di eguaglianza su tutto il territorio nazionale, di conseguenza, le regioni non possono intervenire direttamente sul merito delle scelte terapeutiche, in difformità da decisioni assunte a livello nazionale. Considerazioni di saggezza, improntate al rispetto della dignità della persona e dell’autonomia del medico, che si applicano perfettamente al caso della pillola Ru486, sulla cui ammissibilità si è già pronunciato, sulla base di considerazioni puramente tecnico-scientifiche, l’organo statale competente, ovvero l’Agenzia italiana del farmaco. Quel che le Regioni possono fare, in base alla normativa vigente, in quanto responsabili dei servizi sanitari nel proprio territorio, è dettare norme di organizzazione e di procedura, secondo quanto la stessa Corte costituzionale ha precisato. Ovvero, scegliere quali tra i farmaci ammessi possano essere inseriti nel prontuario regionale dei farmaci che si somministrano in ospedale, quando siano possibili più scelte alternative: cosa che evidentemente non può dirsi per la pillola Ru486 che, ad oggi, rimane l’unica opzione possibile per l’aborto farmacologico. Considerazioni queste che certo non sfuggono ai due presidenti di Regione. La loro decisione di intraprendere una via chiaramente impercorribile in termini giuridici ma remunerativa in chiave mediatica è un ennesimo preoccupante sintomo del degrado del dibattito politico e un richiamo alla vigilanza attiva di chi crede ancora nelle regole.
Le sentenze della Corte Costituzionale a cui si riferisce Tania Groppi sono, salvo errore, la 282/2002 e la 338/2003.

domenica 4 aprile 2010

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a favore dell’eterologa


Il 1 aprile scorso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto l’Austria colpevole di violazione degli articoli 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, e ha per questo condannato il governo austriaco a risarcire i danni morali e le spese processuali a due coppie cui la legislazione vigente aveva impedito di eseguire la fecondazione in vitro eterologa (la Corte non può imporre direttamente di mutare la legge ai paesi che aderiscono alla Convenzione).
La sentenza, viste le motivazioni, potrebbe facilmente essere ripetuta qualora fosse una coppia italiana a rivolgersi alla Corte. I giudici affermano infatti che le ragioni di natura morale o di accettabilità sociale invocate dal rappresentante del governo austriaco potrebbero essere sufficienti a proibire del tutto la procreazione medicalmente assistita, ma non ad escluderne solo certi aspetti (§. 74). Per quanto riguarda il timore che queste tecniche possano essere usate per altri scopi, come la selezione dei nascituri, la Corte sostiene che esistono mezzi meno drastici per stornare il pericolo, come per esempio il fatto che le tecniche possono essere praticate solo da medici vincolati da precisi codici deontologici (§§. 75-76). Allo stesso modo, sul rischio di sfruttamento economico delle donatrici di ovociti i giudici rispondono che esso è già a sufficienza contrastato dal divieto della compravendita di gameti (§. 77), mentre i rischi medici dovuti alla stimolazione ormonale sono incoerentemente ammessi dalla legge austriaca nel caso della donazione omologa (§. 78; suppongo che i giudici pensassero alle donatrici di ovociti impegnate a loro volta in un trattamento di procreazione assistita).
Il governo austriaco ha argomentato ulteriormente che la proibizione della fecondazione eterologa serve a impedire la formazione di relazioni familiari anomale (p.es. separazione fra madre genetica e madre sociale); la Corte ha risposto che questo tipo di relazioni esiste fin dall’istituzione dell’adozione (§§. 79-81). Infine, riguardo al preteso diritto a conoscere i propri genitori genetici, la Corte ha risposto che questo diritto indubbiamente esiste ma non è assoluto, dovendo essere contemperato con il diritto dei donatori all’anonimato; sarebbe possibile per i giudici ottenere un ragionevole bilanciamento tra i due (§§. 82-84).

Una sentenza nel complesso molto ragionevole; prepariamoci a sentire i lamenti degli integralisti contro l’ennesima «intromissione» dei giudici europei.

Convegno

Il centro per la ricerca e la formazione in politica ed etica Politeia organizza il convegno Perché l’autodeterminazione valga su tutta la vita e anche dopo (Roma, 13 aprile 2010, ore 14.00-19.00 – Sala di Palazzo Bologna, via Santa Chiara 4), con la partecipazione, fra gli altri, di Vittorio Angiolini, Beppino Englaro, Eugenio Lecaldano, Claudia Mancina, Maurizio Mori, Demetrio Neri, Mario Riccio, Stefano Rodotà, Mina Welby. La partecipazione è libera, previa iscrizione e fino a esaurimento posti. Programma.

sabato 3 aprile 2010

Tommaso Debenedetti: una bibliografia

Il caso di Tommaso Debenedetti, il giornalista che sembrerebbe essersi inventato di sana pianta una lunga serie di interviste a personaggi celebri, è scoppiato con un’altra intervista – autentica questa – di Paola Zanuttini a Philip Roth, pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 26 febbraio scorso, in cui lo scrittore è caduto dalle nuvole quando la Zanuttini gli ha chiesto conto di certe sue dichiarazioni anti-obamiane raccolte da Debenedetti per Libero; è così venuto fuori che l’intervista a Roth di Debenedetti era completamente inventata. Il caso si è allargato ed ha assunto una risonanza internazionale quando la vicenda è stata ripresa da Judith Thurman del New Yorker, che in una serie di articoli e post di aggiornamento («Counterfeit Roth», 5 aprile [il numero a stampa è postdatato]; «Another Counterfeit Interview: Gore Vidal», 31 marzo; «More Counterfeit Interviews», 1 aprile) è andata allargando l’estensione dello scandalo, man mano che uscivano sempre nuove interviste, tutte apparentemente fasulle. Ma all’esame della Thurman manca ancora molto materiale.
Per dare l’idea della portata complessiva dell’impresa di Debenedetti, pubblico qui (riprendendo uno spunto presente nei commenti all’ultimo post della Thurman) l’elenco dei suoi articoli presenti nella rassegna stampa della Camera dei Deputati, in ordine di persone intervistate. Alcune avvertenze: l’elenco non è completo (mancano per esempio tutti gli articoli pubblicati sul Piccolo); non tutti i pezzi sono interviste (anche se quasi tutti gli articoli di altra natura presentano comunque delle dichiarazioni raccolte a suo dire dall’autore); soprattutto, non è detto che le interviste siano tutte false. I lettori si possono esercitare a separare il grano dal loglio, in attesa che la verità trionfi...

  1. L’Indipendente del 1/11/2006 – Int. a AL ASWANI ALA: “L’Islam non può condannare le parole del Papa”, pag. 4.
  2. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 25/1/2010 – Int. a AUSTER PAUL: Paul Auster New York è diventata cinica, pag. 21.
  3. Il Mattino del 7/3/2002 – Int. a BACCINI MARIO: Istituti di Cultura, a rischio i direttori di Parigi e Berlino, pag. 19.
  4. Il Mattino del 22/10/2002 – Int. a BEN JELLOUN TAHAR: Ben Jelloun: “Ho voluto narrare la tragedia di un popolo”, pag. 21.
  5. L’Indipendente del 13/10/2005 – Int. a BERGOGLIO JORGE MARIO: Bergoglio: “Una Chiesa muta non è più Chiesa”, pag. 3.
  6. Il Mattino del 25/9/2000 – Int. a BO CARLO: “Ha raccontato le incertezze del Novecento”, pag. 13.
  7. Il Mattino del 12/5/2002 – Int. a CANDITO MIMMO: Mimmo Candito, professione reporter. Di guerra, pag. 17.
  8. Il Mattino del 7/2/2003 – Int. a CHOMSKY NOAM: “L’America non ha prove, ma vuole la guerra per il petrolio”, pag. 4.
  9. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 27/9/2009 – Int. a COELHO PAULO: “Celebri, ricchi e infelici: solo l’amore può salvare dal successo”, pag. 32/33.
  10. Il Mattino del 17/12/2002 – Int. a ESQUIVEL PEREZ: “Washington cerca solo la propria supremazia”, pag. 11.
  11. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 25/10/2009 – Int. a FOLLETT KEN: Ken Follett. “Vi racconto il mio Novecento. Senza respiro”, pag. 30/31.
  12. Il Mattino del 22/11/2001 – Int. a GINSBORG PAUL: “Questa è una guerra alla cieca”, pag. 5.
  13. L’Indipendente del 10/7/2004 – Int. a GORBACIOV MIKHAIL SERGEEVIC: “Berlusconi non è il problema”, pag. 1.
  14. Il Mattino del 3/9/2002 – Int. a GORDIMER NADINE: “Decidono solo i Paesi ricchi, il Terzo Mondo resta escluso”, pag. 3.
  15. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 8/12/2009 – Int. a GORDIMER NADINE: “Vicini alla catastrofe. E l’Europa guarda”, pag. 10.
  16. Il Mattino del 23/8/2002 – Int. a GRASS GUNTER: “I potenti uccidono la Terra”, pag. 6.
  17. L’Indipendente del 11/1/2006 – Int. a GRASS GUNTER: Grass: “La Merkel farà bene”, pag. 2.
  18. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 21/1/2010 – Int. a GRISHAM JOHN: Grisham: “Obama punito, promette troppo”, pag. 10.
  19. Il Mattino del 30/1/2003 – Int. a GROSSMAN DAVID: “Hanno vinto sfiducia e paura e nel futuro vedo il buio”, pag. 11.
  20. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 6/12/2005 – Int. a GROSSMAN DAVID: “Hanno un solo obiettivo: fermare Sharon, Peres e Abu Mazen”, pag. 6/7.
  21. Il Mattino del 15/2/2002 – Int. a HUMMADI YOSSUF: “Una terribile sciocchezza scatenare un’altra guerra”, pag. 12.
  22. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 7/11/2009 – Int. a KUNDERA MILAN: “Liberi d’improvviso: la gioia incredula degli sconfitti”, pag. 30/31.
  23. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 8/6/2001 – Int. a LE CARRÈ JOHN: John Le Carrè. “Non ho votato Tony. È un thatcheriano”, pag. 19.
  24. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 29/11/2002 – Int. a LE CARRÈ JOHN: “I proclami di Bin Laden sono segnali d’attacco”, pag. 6.
  25. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 16/6/2004 – Int. a LE CARRÈ JOHN: “L’Europa? Una delusione. Troppi cavilli e poche scelte su guerra e terrorismo”, pag. 5.
  26. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 4/6/2005 – Int. a LE CARRÈ JOHN: “Se non si cambia rotta sarà un continente debole”, pag. 2/3.
  27. Libero del 15/11/2009 – Int. a LE CARRÈ JOHN: Il ritorno delle spie, pag. 30/31.
  28. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 26/3/2003 – Int. a MAHFUZ NAGHIB: “Ci saranno altri kamikaze”, pag. 12.
  29. Il Mattino del 23/2/2002 – Int. a MARAINI DACIA: Maraini: “Purché ci ascoltino...”, pag. 5.
  30. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 24/4/2003 – Int. a MILLER ARTHUR: Miller: “Dopo il crollo delle Torri l’intellettuale non ha più coraggio”, pag. 35.
  31. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 21/10/2009 – Int. a MORRISON TONI: “Obama? Un ragazzo timido tutto casa, famiglia e Stato”, pag. 33.
  32. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 11/12/2009 – Int. a MULLER HERTA: “Perché la vita schiaccia la dittatura”. Parola di Nobel, pag. 33.
  33. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 24/11/2005 – Int. a OZ AMOS: Amos Oz: “Il falco Sharon vuole entrare nella storia come uomo della pace”, pag. 8.
  34. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 27/1/2010 – Int. a OZ AMOS: “Per noi Ebrei l’incubo non è mai finito” (con Achille Scalabrin), pag. 38.
  35. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 21/9/2009 – Int. a RAHIMI ATIQ: “Il mio popolo vi ama. Vi prego, non lasciateli soli”, pag. 7.
  36. Il Mattino del 9/12/2001 – Int. a RASHID AHMED: Corano e leggi nell’Afghanistan dopo i taleban, pag. 19.
  37. L’Indipendente del 21/4/2005 – Int. a RATZINGER JOSEPH: Contro l’eresia degli “ismi” totalitari, pag. 3.
  38. Il Mattino del 26/11/2002 – Int. a RITTER SCOTT: “La guerra? Una follia di Bush”, pag. 11.
  39. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 30/1/2003 – Int. a ROTH PHILIP: “La grande paura ha cambiato l’America”, pag. 6.
  40. L’Indipendente del 16/2/2005 – Int. a ROTH PHILIP: Lasciare l’Iraq è una sciocchezza, pag. 3.
  41. L’Indipendente del 30/3/2006 – Int. a ROTH PHILIP: Philip Roth: “Dalle urne un vincitore solo, Sharon”, pag. 3.
  42. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 20/1/2007 – Int. a ROTH PHILIP: “America, che peccato aver perso l’happy end”, pag. 27.
  43. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 11/9/2009 – Int. a ROTH PHILIP: “Nemmeno il sogno di Obama ha ridato speranza agli USA”, pag. 5.
  44. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 22/2/2004 – Int. a SHALEV MEIR: “Sharon, un progetto sbagliato provocherà nuove tragedie”, pag. 35.
  45. Il Mattino del 24/10/2001 – Int. a VARGAS LLOSA MARIO: Vargas Llosa: “Questo terrore rischia di imbarbarirci tutti”, pag. 3.
  46. Il Mattino del 8/12/2000 – Int. a VIDAL GORE: Una tragedia americana, pag. 23.
  47. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 15/9/2001 – Int. a VIDAL GORE: “Il gigante è fragile non ha cervello”, pag. 19.
  48. Il Mattino del 31/10/2002 – Int. a VIDAL GORE: “Impeachment per George Bush il gran bugiardo”, pag. 19.
  49. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 4/3/2004 – Int. a VIDAL GORE: “Che delusione questa politica vittima delle lobby”, pag. 8.
  50. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 9/11/2008 – Int. a VIDAL GORE: “Stavolta l’America è cambiata davvero”, pag. 20.
  51. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 14/1/2010 – Int. a WALCOTT DEREK: “Ho sentito un boato tremendo era il rumore della morte”, pag. 8.
  52. L’Indipendente del 25/11/2005 – Int. a WALESA LECH: Lech Walesa: “A Est il comunismo non è morto”, pag. 3.
  53. Il Mattino del 10/8/2002 – Int. a YEHOSHUA ABRAHAM: Voglia di fuga, pag. 19.
  54. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 12/6/2003 – Int. a YEHOSHUA ABRAHAM: “Un muro per dividere questa terra e salvarla”, pag. 2.
  55. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 23/3/2004 – Int. a YEHOSHUA ABRAHAM: “Una follia che porterà nuovi lutti”, pag. 6.
  56. L’Indipendente del 10/12/2004 – Int. a YEHOSHUA ABRAHAM: “Dopo ARAFAT il dialogo è possibile”, pag. 3.
  57. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 11/1/2005 – Int. a YEHOSHUA ABRAHAM: Yehoshua: “Bravi Palestinesi. Ora la pace è più vicina”, pag. 16.
  58. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 3/11/2005 – Int. a YEHOSHUA ABRAHAM: “Ahmadinejad, vero riferimento per i terroristi”, pag. 6.
  59. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 21/11/2006 – Int. a YEHOSHUA ABRAHAM: “Via dal governo chi ha sfilato”, pag. 9.
  60. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 17/4/2007 – Int. a YEHOSHUA ABRAHAM: Yehoshua: “La svolta grazie a Ratzinger”, pag. 22.
  61. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 4/2/2010 – Int. a YEHOSHUA ABRAHAM: L’emozione di Yehoshua: “È sincero, ama questa terra senza finzioni”, pag. 6/7.
  62. Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione del 7/2/2010 – Int. a YOSHIMOTO BANANA: Giappone segreto. Al gusto di Banana, pag. 32/33.
  63. Il Mattino del 13/6/2002 – Sgarbi, il gran rifiuto, pag. 17.
  64. Il Mattino del 12/7/2002 – Istituti di cultura all’estero, nessun “licenziamento”, pag. 21.
  65. L’Indipendente del 11/9/2004 – Urbani e la sua vita istituzionale, pag. 4.
  66. L’Indipendente del 5/10/2004 – La Fiera del Libro arabo, pag. 1.
  67. L’Indipendente del 10/4/2005 – Joseph Ratzinger cardinale gentile. E fermissimo, pag. 1.
  68. L’Indipendente del 27/5/2005 – Un Sinodo di riconciliazione per unire cattolici e ortodossi, pag. 1.
  69. L’Indipendente del 8/6/2005 – Referendum, il Papa lascia a Ruini l’appello finale, pag. 1.
  70. L’Indipendente del 22/6/2005 – La “svolta ebraica” del Catechismo di Ratzinger, pag. 1.
  71. L’Indipendente del 29/6/2005 – Ecco come Karol il Grande diventerà santo in un anno, pag. 1.
  72. L’Indipendente del 6/8/2005 – “Pio XII inviò una lettera di felicitazioni a Israele”, pag. 1.
  73. L’Indipendente del 18/8/2005 – Oggi è il grande giorno di Benedetto XVI a Colonia, pag. 1.
  74. L’Indipendente del 10/9/2005 – In Vaticano non si coltivano sogni neocentristi, pag. 1.
  75. L’Indipendente del 23/9/2005 – Lo sconcerto della Chiesa, pag. 1.
  76. L’Indipendente del 4/10/2005 – Se Dio entra nell’urna, pag. 1.
  77. L’Indipendente del 30/11/2005 – Il Vaticano, i gay e le vocazioni, pag. 3.
  78. L’Indipendente del 21/2/2006 – “Rispettate le fedi”, pag. 1.
  79. L’Indipendente del 24/5/2006 – Su D’Alema alla Farnesina gli Israeliani si dividono, pag. 3.