martedì 31 gennaio 2012

A cosa si convertirà, adesso?

I rapporti tra Magdi Cristiano Allam e la Chiesa Cattolica volgono ormai decisamente al peggio: dopo la lettera aperta a Benedetto XVI («Altro che Monti “benedetto”: svenderà l’Italia al dio euro», Il Giornale, 16 gennaio 2012, p. 8), in cui rimproverava con toni aspri il papa per aver accolto amichevolmente Mario Monti in Vaticano (per Allam l’attuale governo sarebbe «espressione di un colpo di Stato finanziario»), l’editorialista del Giornale torna a farsi sotto, incurante delle accuse più o meno velate di ingratitudine – come si ricorderà, Allam era stato battezzato dal papa in persona – e allargando anzi il bersaglio («Monti è pronto a svendere il paese alla Merkel», Il Giornale, 30 gennaio, p. 1):

Monti gode di un fronte interno incredibilmente coeso, grazie alla regia altamente discutibile del capo dello Stato Napolitano e al non meno grave sostegno della Chiesa Cattolica […].
Il sostegno della Chiesa è per Allam davvero grave, visto che a suo giudizio «quella di Monti è la peggiore delle dittature».

La frattura potrebbe divenire presto irreparabile: si suppone che un cattolico che fa la predica al papa e lo ritiene in combutta con «la peggiore delle dittature» non possa rimanere cattolico molto a lungo. C’è da chiedersi quale sarebbe in questo caso la prossima tappa dello zigzagante cammino religioso dell’egiziano. A giudicare dagli argomenti usati e da certe chiare propensioni non mi stupirei eccessivamente nel vedere un giorno o l’altro Allam fare atto di fedeltà nei confronti di qualche conventicola sedevacantista. Ma si può fare anche un’ipotesi più ardita: nell’articolo di ieri, tra un’invettiva contro il bieco complotto europeo e una rampogna all’attuale Presidente del Consiglio, trova posto anche un’esortazione a investire «nella dimensione dell’essere anziché dell’avere». E allora perché non immaginare – con appena un po’ di ardimento – una conversione al buddismo? «Magdi Siddhartha Allam», oltretutto, suona decisamente bene...

mercoledì 25 gennaio 2012

Addirittura?!

Rodolfo Casadei, «Castellucci, abile imprenditore dell’anticonformismo e del nichilismo», Il mondo è grigio, il mondo è blu - BLOG, 19 gennaio 2012:

Chi imbratta il volto di Cristo, che ne sia consapevole o no, prepara le nuove Auschwitz. E di questo dovrebbero essere preoccupati, mi pare evidente, non solo i cristiani.
Che qui ci sia qualcosa di cui preoccuparsi pare evidente anche a me, anche se non è esattamente quello di cui parla Casadei...

martedì 24 gennaio 2012

La saggezza di Socci

La pièce teatrale Sul concetto di volto nel Figlio di Dio di Romeo Castellucci (in programmazione da oggi e fino al 28 gennaio al Teatro Parenti di Milano) ha causato nei giorni scorsi prese di posizione rabbiose da parte degli integralisti cattolici, che accusano l’opera di blasfemia – naturalmente senza averla mai vista: il lancio di escrementi contro una gigantografia del volto di Cristo, di cui si parla, esiste a quanto pare solo nell’immaginazione sovreccitata di questi fanatici.

Fra le poche voci cattoliche a non farsi travolgere dall’odio cieco va annoverata quella – certo non sospettabile di sudditanza nei confronti del mondo laico – di Antonio Socci, che in alcuni articoli (del 20 e del 22 gennaio) ha difeso il regista dalle accuse piovutegli addosso. In un post apparso oggi Socci ci aiuta a capire cosa può aver causato questo assalto inconsulto («La mia risposta sul “caso Castellucci” (con un invito ad andare a leggere sul sito della Chiesa francese)», Lo Straniero, 24 gennaio 2012):

Ci sono cattolici ragionevoli e seriamente preoccupati che hanno scritto sul “caso Castellucci” e pure che hanno inviato mail a me. Con costoro credo si possa convenire che c’è stato un colossale malinteso: in quella pièce teatrale non c’è nessun lancio di escrementi sacrilego.
Secondo me dovrebbe bastare questo a mettere fine alla bagarre.
Ma ci sono anche alcuni fanatici, che in certi casi sembrano francamente confusi dall’astio, talora dall’odio, e che mi scrivono insulti (complimenti: che bel cristianesimo!).
Costoro sembrano quasi dispiaciuti dalla scoperta che nella pièce di Castellucci non c’è nessun lancio di escrementi sull’immagine di Cristo di Antonello da Messina.
Non se ne danno pace, sembrano smaniare perché quel “lancio” ci sia e siccome hanno bisogno di un Nemico da “bruciare” per avere un’identità (mentre la vera identità cristiana non si fonda su un Nemico, ma su un avvenimento, un avvenimento di misericordia), non riconoscono di essersi sbagliati chiedendo scusa.
Tanto meno tacciono, mettendo fine alla baraonda. No.
Cercano altri pretesti per “bruciare” il Nemico, demonizzato addirittura fino a essere chiamato “satanista”.
Io credo che sia questa la vera caricatura del cristianesimo. Una caricatura grottesca, mostruosa. Proprio una eventuale corsa dietro ai fondamentalismi di altre religioni – questa sì, davvero – rischierebbe di sporcare il Volto santo di Gesù.
Credo che Socci colga nel segno: è un profondo bisogno di odiare che muove queste persone, che si autogiustificano dipingendosi come vittime. Aggiungo solo due notazioni personali. La prima riguarda l’incredibile accostamento, compiuto da molti integralisti, di un episodio come questo alle stragi dei cristiani avvenute in altre parti del mondo: tutto viene accomunato sotto l’unica etichetta di «cristianofobia», spettacolo teatrale e morti ammazzati, col risultato di banalizzare le sofferenze di quello che dovrebbe essere il proprio stesso popolo (vengono in mente i Haredim israeliani, fondamentalisti ebrei che protestando alcune settimane fa per alcuni pretesi affronti subiti si paragonavano alle vittime dell’Olocausto).
Seconda notazione: non sottovaluterei, in episodi come questi, il tentativo di alcuni personaggi di accreditarsi di fronte alla comunità integralista come «puri» e inflessibili. La tardiva condanna dello spettacolo che le gerarchie vaticane hanno emesso suona come il tentativo un po’ maldestro dell’istituzione di non farsi scavalcare «a destra» da gruppi pericolosamente vicini agli ambienti ultra-tradizionalisti dei lefebvriani.

Personalmente difenderei il diritto del regista Romeo Castellucci alla libertà di espressione anche se il suo spettacolo fosse stato effettivamente e convintamente blasfemo. Dubito assai che Socci possa giungere a questo; ma gli va dato comunque atto di saper stare qualche volta dalla parte giusta, fuori dai condizionamenti comunitari e istituzionali.

Men Struggle for Rape Awareness

Like women, men who are raped feel violated and ashamed and may become severely depressed or suicidal. They are at increased risk for substance abuse, problems with interpersonal relationships, physical impairments, chronic pain, insomnia and other health problems.

But men also face a challenge to their sense of masculinity. Many feel they should have done more to fight off their attackers. Since they may believe that men are never raped, they may feel isolated and reluctant to confide in anyone. Male rape victims may become confused about their sexual orientation or, if gay and raped by a man, blame their sexual orientation for the rape.
Men Struggle for Rape Awareness, The New York Times, january 23, 2012.

Fahrenheit di ieri

venerdì 20 gennaio 2012

Donna, moglie, madre, oggetto di piacere


Men from Mars; women from Venus; me from where?
David Steinberg, On Sexual Objectification

Nel tempo il ruolo attribuito dalla società al genere femminile è cambiato solo in parte. Se trent’anni fa una donna era tale in virtù del suo essere moglie e madre, oggi è la sua sensualità a definirla: un oggetto sessuale e decorativo. Eppure, sono molte le donne che si sono ribellate; perché subire non è un destino immutabile. 

Eluana Englaro e la maternità “Potrebbe anche in ipotesi generare un figlio”. È il febbraio del 2009, Silvio Berlusconi sta parlando di Eluana Englaro. Mentre il Parlamento rincorre un modo per impedire la legittima sospensione della nutrizione e idratazione artificiali, queste parole sono intrappolate per sempre su You Tube - esempio tragicamente perfetto della riduzione della donna a oggetto. Perfetto perché rivolto a una persona a priori e senza dubbio incapace di difendersi. A una donna in stato vegetativo persistente e permanente da molti anni. Perché la donna incubatrice è un’altra forma di riduzione a oggetto. La donna come madre, la donna come destinazione d’uso: piacere, sesso, maternità. Anche la maternità può infatti essere una condanna e una insopportabile riduzione a corpo, se non è scelta dalla donna, al punto che non dovremmo usare la stessa parola. La maternità non può essere ridotta alla possibilità biologica di generare un figlio. In questo caso la perfetta vittima, perché inerme, è oggetto della più vile aggressione. Espropriata della sua capacità di difendersi. Del desiderio, della volontà. Se l’incidente ha tolto alla giovane Eluana la sua vita cosciente e personale, le parole di Berlusconi l’hanno fatto metaforicamente. Quante persone hanno ascoltato queste parole, intontite quasi dalla loro abnormità? Berlusconi le ha pronunciate, ma chi ha taciuto e chi ha permesso o contribuito a far sì che potessero essere pronunciate è complice di questo definitivo scempio. “Eluana può ancora avere figli” mi rimbomba nella testa. Ho visto ciò che rimaneva di Eluana, in quel letto e in quel corpo di cui non aveva più consapevolezza, girato, pulito e toccato da mani estranee. Rivoltato come un sacco. Un corpo che il padre Beppino ha sempre protetto e tenuto al riparo: una scelta strategicamente difficile, perché l’immagine pubblica di Eluana era quella di una ragazza bella e sorridente - com’era prima dell’incidente stradale. Impossibile spiegare perché quella ragazza tanto bella avrebbe “voluto” morire (Nota: Approfitto per ricordare che la battaglia di Beppino è stata quella di far rispettare i desideri della figlia e non, come alcuni hanno distorto, quella di far morire la figlia, di liberarsene). La clinica di Lecco, quella da cui è stata spostata all’inizio del febbraio 2009 per andare a Udine a morire, era la stessa in cui era nata nel 1970. Bizzarro il destino. La stanza era piena di peluche. Eppure aveva 19 anni, non 4, quando ha avuto l’incidente. Un contrasto surreale. In quella stanza c’erano poi quelle foto che abbiamo visto sui giornali. Di una ragazza bella e sorridente che non sarebbe mai più stata. Il padre mi ha detto “puoi avvicinarti”. Non avrei potuto chiedere a lei il permesso. E c’era chi immaginava di disporre del suo utero. Può generare figli. Una scatola di carne, un corpo abusato. Una incubatrice - scenario adatto alle peggiori distopie fantascientifiche. Eppure può rimanere incinta e tanto basta a farne una Donna. Strumento di qualcun altro. Impossibile sapere se Berlusconi avrebbe detto qualcosa del genere di un uomo. L’orrore diventa ancora più innegabile se ci domandiamo: generare un figlio, come? Di fronte a quelle parole, impallidiscono le altre forme di sopruso compiute su Eluana Englaro. “Eluana svegliati” gridavano alcuni fuori alla clinica “La Quiete” di Udine. Come se avesse potuto ascoltarli. Le portavano bottigliette d’acqua. Come se avesse potuto bere.

Italianieuropei, 1/2012, pp. 67-72.

martedì 17 gennaio 2012

Il parto orgasmico, il dolore e i poteri dimenticati della vagina



Programma/Contenuti

TEMI PRINCIPALI:
L’enigma dolore-piacere. Il parto orgasmico;
Il dolore del parto e la sua origine (stress e cultura);
I fondamenti della Legge dello sfintere. L’episiotomia e i poteri dimenticati della vagina;
Analgesia epidurale. Punti critici;
Metodi naturali di analgesia a confronto.

Per altre informazioni sul corso...

Dalla parte del medico

Scegliere di eseguire interruzioni di gravidanza non è una scelta facile. Lo spazio già angusto dedicato alla questione è occupato esclusivamente dal vissuto della donna, in genere quando c’è qualche caso che va storto più degli altri. Passata l’emergenza della cronaca nessuno se ne interessa più. Come vivono i medici questa parte della loro professione? L’ho chiesto proprio a Paola Lopizzo (Ospedale San Giovanni - Addolorata di Roma, unica ad eseguire interruzioni di gravidanza tardive) durante una pausa di una domenica di turno in ospedale. “Per me non è facile fare interruzioni di gravidanza. Il medico vuole curare, magari non ci riesce sempre, ma ha quella idea quando decide di diventarlo. Poi in particolare il ginecologo fa nascere i bambini! Dedicare un parte della propria attività a distruggere la vita è doloroso, qualsiasi sia la ragione è un aspetto distruttivo e non costruttivo. Io ho deciso di non essere obiettore, anche perché ho scelto liberamente di fare questo lavoro e di lavorare in una struttura pubblica (Sul Journal of Medical Ethics è stata pubblicata una indagine sul parere degli studenti di Medicina in Gran Bretagna riguardo all’obiezione di coscienza. Le domande riguardavano alcune procedure moralmente conflittuali: è giusto che un medico faccia obiezione di coscienza, per esempio, sull’interruzione di gravidanza, sulla contraccezione, sul trattamento di pazienti ubriachi o drogati o di persone di sesso opposto a quello del medico? Le risposte affermative sono state oltre il 45% del campione (su 1437 studenti contattati, hanno risposto in 733). Sophie LM Strickland, Conscientious objection in medical students: a questionnaire survey, Journal of Medical Ethics, 24 may 2011). Forse anche perché sono una donna (ho fatto l’amniocentesi quando ero incinta e in caso di diagnosi infausta mi sarei trovata di fronte a un dilemma che nessuno vorrebbe affrontare), c’è una legge dello Stato e - per quanto a volte sia pesante - cosa succede se nessuno eseguisse interruzioni di gravidanza? Se tutti fossero obiettori, la legge decadrebbe. Alcuni aborti per patologie fetali mi hanno messo in grossa difficoltà emotiva, sicuramente più sentita perché ero sola, ma penso che sia giusto che ci sia questa legge e che le donne debbano poter scegliere e avere la garanzia di questo servizio. Come faccio a essere d’accordo con la legge e poi però dire “io non lo faccio, lo farà qualcun altro”? I medici non obiettori sono pochi e nessuno parla della loro fatica, della nostra fatica. Non possiamo condividerla. In Francia, per esempio, il 90% dei medici è non obiettore e allora c’è modo di confrontarsi e di condividere i dubbi e le incertezze. Qui al reparto ho una discreta collaborazione da parte dei medici obiettori - caso raro perché capita che siano ostili: la situazione non è certo ottimale ed è dovuta principalmente al mio carattere. Ho una rete di consulenti miei, ma non dovrebbe essere il mio compito! Non dovrebbe essere relegato alle iniziative personali. Anche perché ci sono troppe differenze di servizi tra una struttura e l’altra. Nonostante il clima collaborativo è un lavoro che faccio da sola. Le pazienti le seguo io. Oggi ho una paziente per un aborto tardivo e in più sono di guardia, quindi può succedere anche di avere imprevisti. Tutto questo pesa solo su di me”. Il racconto di Lopizzo, oltre alla solitudine, tocca il dolore delle interruzioni tardive e la contraddizione dell’elevato ricorso alla diagnostica prenatale. “Entro i 90 giorni si potrebbe filosofeggiare sul fatto che sono gravidanze evitabili, almeno in teoria e almeno in parte. Se escludiamo le violenze sessuali, gli errori o le condizioni di scarsa informazione, diciamo che un parte di quelle gravidanze sarebbe prevedibile e evitabile ricorrendo alla contraccezione. Ma dopo il terzo mese l’interruzione è fatta nella maggior parte dei casi per malformazione fetale, oppure per ragioni di salute della donna (ho fatto interruzioni di gravidanza su feti sani perché la donna aveva scoperto di avere un cancro al seno o la leucemia). Sono gravidanze desiderate, non evitabili. Queste donne non vorrebbero mai abortire!, vivono un conflitto e un dolore profondi. Essere obiettori significa tirarsene fuori, eppure la diagnostica prenatale la fanno tutti, ospedali religiosi, obiettori, tutti. Anzi in Italia la si spinge molto, non si scoraggiano le pazienti. Il numero di ecografie e amniocentesi è altissimo. Ancora di più nelle strutture private (l’amniocentesi si paga tanto). A che serve la diagnostica prenatale? Purtroppo non serve a curare. O per trovare bambini sani. Se fossimo sicuri che tutti i bambini sono sani non faremmo indagini! Le indagini servono per diagnosticare in larga parte patologie incurabili. E dare alla paziente la possibilità di scegliere. In alcuni casi la patologia esclude la sopravvivenza del feto e della scelta rimane ben poco. È vergognoso che alcune strutture campino su questo mercato e poi mollino le donne al loro destino. Lasciamo perdere le strutture religiose che si nascondono dietro al sofisma che loro fanno diagnosi in modo che la donna si possa preparare. Le pazienti che dicono che non abortirebbero in alcun caso decidono di non fare indagini. Molte volte mi hanno detto: “è inutile che io faccia una diagnostica invasiva, facendo correre anche il rischio all’embrione, tanto io porto comunque avanti la gravidanza. E se sapessi che è affetto da una patologia vivrei angosciata per il resto della gravidanza. Lo saprò alla nascita e lo accoglierò per quello che è”. In troppi pensano che le pazienti siano incapaci o abbiano bisogno di un tutore che decida cosa debbano pensare e addirittura parli in loro vece. Bisognerebbe chiedere alle donne e non presumere ragioni e desideri per nascondersi ipocritamente dietro a una scusa. Sono frequenti i casi di grosse strutture private gestite da obiettori che fanno e vivono sulla diagnostica prenatale. Poi alle pazienti dicono “devi abortire altrove, noi siamo obiettori”. La diagnostica è un lavoro pulito (questa è la loro assurda pretesa), noi dobbiamo fare il lavoro sporco. Il medico deve farsi carico anche degli aspetti sgradevoli: quando assisti un malato terminale non è forse sgradevole e doloroso? Come si fa ad abbandonare una donna che ha appena saputo di una diagnosi infausta? Non sempre le loro decisioni ci troveranno d’accordo, ma è una ragione per non prendersene carico? Io ho avuto casi su cui non concordavo e sono stata molto incerta, ma poi ho pensato: se non lo faccio io, chi lo fa? E poi ho pensato anche: è giusto che nelle mie mani ci sia il destino di un’altra persona? Chi sono io per avere tutto questo potere? C’è molta ipocrisia. Tanti colleghi di servizi religiosi mi mandano le pazienti ad abortire. Posso anche condividere l’obiezione, ma deve essere genuina. Io lo capisco. Ma poi non mi mandi, dopo aver fatto magari un’amniocentesi, una paziente perché non vuoi sporcarti le mani. O una conoscente o tua moglie. Ho un collega obiettore che rispetto molto, e che non si è mai opposto a una epidurale per esempio. Si da da fare tantissimo per le pazienti. Facciamo accese discussioni, ma la sua scelta non è di comodo. E lui non fa indagini prenatali: “non posso poi abbandonare le donne e dire loro che io non faccio interruzioni di gravidanza”. È coerente. Ce l’ha la coscienza. Molti invece che coscienza hanno? Fai una diagnosi di idrocefalia e poi cosa dici alla paziente? “Devi interrompere la gravidanza perché tuo figlio sarà un vegetale ma non qui e non con me”. E quella poi deve andare in giro e arrangiarsi? Tanti medici non dicono alle donne nemmeno dove andare. Non è semplice trovare dove fare una interruzione di gravidanza tardiva”. Non è semplice, questo lo abbiamo imparato.

(Estratto da “1978, l’interruzione volontaria di gravidanza”, C’è chi dice no. Dalla leva all’aborto. Come cambia l’obiezione di coscienza, postato ieri da Lipperatura).

Cancellare i ricordi

E se potessimo cancellare il ricordo invece che rincorrerlo? Se fossimo in grado di rimuovere un frammento del nostro passato, un po’ come si cancella un file da un computer? Cancellare i ricordi: il tormento e il dilemma, la Lettura, #9, domenica 15 gennaio 2012, Il Corriere della Sera.

Test: scopri il discriminatore che è in te

È raro che qualcuno ammetta di essere ingiusto. La strategia più comune è quella di considerare immeritevoli quelli verso cui siamo ingiusti. “Discriminatorio io?” “Ma no, sei tu a non avere i requisiti per essere trattato diversamente da come ti tratto. Non sono ingiusto io, se tu che sei inferiore.” Il dominio dei destinatari è vasto: persone di un sesso diverso dal nostro, appartenenti a un’altra cultura, nate in un Paese o in una città più o meno lontani da noi. L’eventuale diversità viene trasformata in una gerarchia in cui noi siamo i più ganzi, e gli altri sono inferiori, in una visione claustrofobica e autistica. Chissà, magari non è solo mala fede o potere seduttivo del sopruso, alcuni ci credono davvero e non notano le analogie di una loro posizione (ingiusta e ingiustificabile) con altre che loro stessi valuterebbero inammissibili, moralmente ripugnanti e irrispettose dell’uguaglianza tra le persone. Non abbiamo ancora bisogno di discutere quest’ultimo punto, vero? È difficile capire se, nel caso di Michele Bachmann, siamo di fronte a malafede, lucida discriminazione o nonsense. Qualunque sia l’ipotesi più verosimile, seguire la sua logica bizzarra è un esercizio utile. Bachmann, repubblicana di ferro, candidata alle presidenziali del 2012, è nota per le sue posizioni ultraconservatrici e illiberali. Nel dicembre scorso uno studente di una scuola superiore dell’Iowa le domanda: perché due persone dello stesso sesso non possono sposarsi? “Certo che possono sposarsi - risponde Bachmann - ma devono sottostare alle leggi proprio come tutti gli altri. Possono sposare un uomo se sono donne. Oppure possono sposare una donna se sono uomini”. Alexandra Petri, columnist e autrice del blog ComPost sul Washington Post, dopo avere precisato che le leggi dell’Iowa permettono alle persone dello stesso sesso di sposarsi, propone alcune analogie che fanno ridere, ma che sono concettualmente potenti e precise, e dimostrano quanto sia ripugnante la posizione di Bachmann (Michele Bachmann gets things straight on gay marriage, 1 dicembre 2011). Sono analogie utili anche a tutti quelli che domandano: “che necessità c’è del matrimonio?”, “non vanno bene anche i DiCo?” - ignari, magari, di quanto queste domande siano intrise di discriminazione. Fate il test “scopri il discriminatore che c’è in te”. Petri immagina cosa risponderebbe Bachmann ad alcune domande. “Perché Rosa Parks non può sedersi nei sedili anteriori dell’autobus?”. “Può sedersi - risponderebbe - può sedersi in fondo all’autobus”. O immaginate, al ristorante, di chiedere il menu vegetariano. “Il menu vegetariano prevede bistecca” replicherebbe Bachmann in versione cameriera.
Il Mucchio di gennaio-febbraio 2012.

mercoledì 11 gennaio 2012

Il Partito dei Morlock

Tom Chivers, «Republicans turn their back on the Enlightenment», Telegraph Blogs, 10 gennaio 2012:

The GOP is increasingly the party of the uneducated: it’s bad enough for them, but if it means voting stupid people, or people who are pretending to be stupid, into the most powerful office in the world, it’s bad for the rest of us too.
Da leggere tutto.

martedì 10 gennaio 2012

Io sto nel Mucchio

Stanno nel Mucchio anche: Subsonica, Afterhours, Artevox e tanti altri (www.ilmucchio.it).

lunedì 9 gennaio 2012

Storie taciute e dimenticate

Dopo la storia di Maria ce ne sono molte altre. Loredana Lipperini continua a pubblicarle. Oggi è la volta della storia di Roberta e della contraccezione negata. In Lipperatura ce ne sono molte altre.

La storia di Viola.

sabato 7 gennaio 2012

A Dog’s Right to Life?

I am a veterinarian, and one of my clients is an elderly woman who loves her 8-year-old Pomeranian dearly but has no family or friends who might inherit it. She wants me to sign a legal document stating that I will euthanize it if she dies before the dog does. What should I do? NAME WITHHELD, BOSTON

Many readers — like the horrified pet owners to whom I mentioned your letter — will find your client’s request simply unthinkable.

Though I’m not entirely sure why.

Dogs have no special expectation of longevity. Death doesn’t rob them of the retirement they had been looking forward to or the long-awaited chance to dance at their daughter’s wedding. So though it would be barbaric to cause the Pomeranian needless pain, ending its life gently seems no worse than things that most people do every day — like eating a hamburger. And I say that as both a dog lover and a hamburger eater.

Our culture draws a distinction between house pets and farm animals. We raise the former to be cosseted and kissed; we raise the latter to be killed and eaten. But that distinction is largely one of convenience. Our convenience, that is. It’s not based on any zoological facts, and the animals sure didn’t consent to it.

So if, like everyone who eats meat or wears leather, you believe that it’s sometimes O.K. to kill animals for our own needs, then why not in this case, when dying would at least be painless but losing its owner would not be?
Da leggere tutto (The New York Times, january 6, 2012).

venerdì 6 gennaio 2012

La santa semplicità del Foglio

Sul Foglio di ieri un anonimo commentava la notizia dell’apertura di un settore del cimitero Laurentino di Roma ai feti abortiti («I sepolcri dei bambini non nati», 5 gennaio 2012). Tra una citazione di Foscolo e una considerazione sui totalitarismi l’autore ha infilato anche questa riga (corsivo mio):

nemmeno il più accanito abortista ha mai negato lo statuto di materia umana, quindi persona, al prodotto di quell’annichilimento.
Ma basta una scorsa, tra le mille possibili fonti, alla voce «Abortion» della Internet Encyclopedia of Philosophy, per rendersi conto che la grande maggioranza dei favorevoli all’aborto nega per l’appunto (a torto o a ragione, qui non c’importa) che feti ed embrioni debbano necessariamente essere considerati persone, pur essendo «materia umana».
Questa circostanza risulterebbe probabilmente scandalosa all’anonimo («Ma come è possibile pensare che non siano persone?», te lo immagini domandare indignato); quel che è certo, è che gli riuscirebbe nuova: è palese che il nostro, di qualcuno che non la pensasse, su quest’argomento, come lui, non ha mai letto una parola che sia una. E ti verrebbe voglia di fargli notare che è un principio etico basilare quello che dovrebbe impedire di scrivere su un giornale (finanziato anche con denaro pubblico!) senza aver fatto neppure uno sforzo minuscolo di considerare seriamente l’opinione di chi la pensa in un altro modo. Ma poi lo vedi così convinto, drappeggiato nel costume virtuoso di crociato per la vita, che ti passa subito la voglia di disturbarlo mentre tanto santamente inveisce.

giovedì 5 gennaio 2012


Olocausto nel centro commerciale

Scrive Tommaso Scandroglio sulla Bussola Quotidiana di oggi («Negozi aperti, famiglie chiuse», 5 gennaio 2012):

“Arbeit macht frei”. Il lavoro rende liberi. Questa era la scritta di benvenuto assai menzognera posta all’ingresso di molti campi di concentramento nazisti. A leggere la notizia del provvedimento di Monti contenuto nella manovra “Salva Italia” che riguarda la liberalizzazione degli orari dei negozi, ci è venuta alla mente per un gioco di libere associazioni questa drammatica scritta (anzi è meglio definirlo drammatico epitaffio). Per quale motivo?
Già: per quale motivo questa associazione di idee piuttosto peregrina? Scandroglio ce lo spiega subito:
“Arbeit macht frei”. Il lavoro rende liberi. Anche se questa scritta non fosse stata posta all’ingresso dei campi di concentramento nazisti con il chiaro intento di tranquillizzare e quindi ingannare i deportati, il contenuto della stessa rimarrebbe menzognero. È la verità, cioè Cristo, che ci rende liberi, non il lavoro come invece ha suggerito il barbuto Marx o prima di lui il proto-liberale John Locke. Questo non toglie che il lavoro può essere uno strumento per arrivare alla verità e quindi alla libertà, cioè se lo intendiamo e lo viviamo come mezzo per realizzare noi stessi e per santificarci. […] Ma il lavoro diventa una schiavitù quando non è più inteso come mezzo ma come fine: lavorare per lavorare, oppure lavorare unicamente per far cassa, senza scopi ulteriori e più alti.
Il provvedimento di Monti costringerà i commercianti a lavorare sempre di più, anche di notte: il sole sul regno del libero mercato non tramonterà mai. […] Dunque ecco che un provvedimento apparentemente liberale si mostra essere strumento per schiavizzare con il lavoro i commercianti.
Non è chiaro da queste parole se Scandroglio stia proponendo un parallelo diretto tra i deportati di Auschwitz e i commercianti; forse la sua è soltanto un’associazione di idee un po’ infelice? Ma ecco che poche righe più sotto il pensiero dell’autore si palesa:
Ecco che […], proprio come nei campi di concentramento, il papà e forse anche la mamma verranno deportati nei centri commerciali a lavorare, volenti o nolenti, anche alla domenica.
Può darsi che qualche volta la difesa dell’Olocausto dalle banalizzazioni sia troppo puntigliosa; certi paragoni con altri grandi massacri o genocidi non sono necessariamente irrispettosi. Ma comparare ai deportati di Auschwitz il lavoratore che fa un turno di lavoro domenicale è qualcosa per cui lo stesso nome di «banalizzazione» è evidentemente inadeguato. Non si tratta di politically correct: qui è in gioco la mera capacità di distinguere il bene dal male, che all’autore dell’articolo e a chi glielo ha pubblicato parrebbe difettare in modo radicale.
Ma forse quelli della Bussola si sono accorti che il loro «quotidiano di opinione online» non riscuote il successo sperato, e hanno deciso di provare a creare un piccolo, cinico scandalo mediatico. Non so quale delle due sia l’ipotesi peggiore.

martedì 3 gennaio 2012

Maria


La storia di Maria è stata pubblicata in Volti e Parole, a cura di Pad Pad Revolution (indice). Da ieri è anche in Lipperatura di Loredana Lipperini.

Dopo avere fatto il test di gravidanza Maria va in un consultorio. Non ha ancora deciso che cosa farà. Qualche giorno dopo Maria decide di abortire e va al Sant’Anna, dove si può scegliere tra l’aborto chirurgico e quello farmacologico, con la RU486. Bisogna certificare lo stato della gravidanza, fare gli esami e l’ecografia - come stabilito dalla legge 194. Durante l’ecografia Maria chiede di sentire il battito, ma la dottoressa le dice che è una IVG e che non è necessario. Ripensandoci adesso suona strano. Maria in quel momento lo attribuisce al carico di lavoro, alla fretta nel dover gestire i tanti pazienti. Non che avrebbe comportato tempo in più soddisfare la sua richiesta. Questo succede durante la prima visita in ospedale. Poi inizia l’iter per interrompere la gravidanza. Il personale medico è professionale e le infermiere molto umane, nella assoluta precarietà dei luoghi e del servizio. Il reparto è scarno, brutto, Maria si domanda se è così intenzionalmente. Le persone fanno la differenza, ma i luoghi sono sgradevoli. Com’è sgradevole passare davanti al nido. Lo stesso medico, insieme ad alcuni infermieri, segue ogni aspetto, dalle prime informazioni alla visita: la somministrazione delle pillole, l’innesto degli ovuli, la compilazione dei moduli e della cartella clinica. Tutto in una stanzetta spoglia. Maria sceglie di non essere ricoverata per i 3 giorni previsti dalla legge, ma firma e se ne va. Preferisce stare a casa e con i suoi amici. Non ci sono ragioni mediche per il ricovero e sarebbe troppo frustrante rimanere chiusa in ospedale 3 giorni durante i quali non succede quasi nulla, stai bene e non faresti che rimuginare e pensare. Il terzo giorno, in cui inseriscono l’ovulo per l’espulsione, sei ricoverata dal mattino, di fianco alle stanze per i magazzini, la porta del bagno non funziona, i letti sembrano arrivare dagli anni ’60. È l’11 agosto. Il 27 Maria torna per la visita di controllo. Deve fare l’ecografia e poi andare in un edificio al di là della strada, è lo stesso ospedale ma in due corpi diversi. Mentre percorre i pochi metri tra un luogo e l’altro Maria intravede delle persone. È distratta e non ci fa molto caso. Poi una donna la affianca. Da una cartelletta blu tira fuori un volantino. Maria ricorda l’immagine di un feto e delle scritte, lo prende in mano e lo restituisce immediatamente. La donna le dice che in quell’ospedale compiono atrocità e omicidi medici. Quell’ospedale è un abortificio. Maria le chiede perché e per conto di chi stava lì e la donna risponde: per il movimento per la vita. Poco più in là ci sono altre due persone, un uomo e forse una donna. Volantinano. Camminando Maria li raggiunge mentre la donna la segue e continua a parlare di orrendi assassinii. Maria sbotta e le dice che lei è lì per quel motivo, che la deve lasciare stare e rifiuta il suo aiuto. La conversazione la sente anche l’uomo, vestito di bianco come un infermiere, mentre la mano della prima donna è sulla spalla di Maria: noi ti possiamo aiutare psicologicamente ed economicamente. La donna deve pensare che Maria non abbia ancora abortito. L’uomo comincia a urlare: le donne che abortiscono sono assassine, è un omicidio vero e proprio, le donne che non sanno affrontare la gravidanza devono essere rinchiuse. Non si rivolge a Maria, ma lei è lì a pochi metri. Maria gli dice che avrebbe dovuto tacere, e che sperava di non incontrare persone come lui nell’ospedale. Ma perché stava lì fuori? L’uomo dice che conosce bene la materia, che ha studiato e che lui sa che è omicidio. Intanto Maria entra in ospedale, ma poco dopo deve ripassare di là per la visita. L’uomo la riconosce e ricomincia a urlare: assassine, assassine. C’è una signora che gli risponde: le ragazzine che rimangono incinte e magari non se la sentono è giusto che possano scegliere, è giusto che l’aborto sia legalmente protetto. Secondo l’uomo per le donne che non vogliono un figlio ci sono le comunità dove poter lasciare i neonati. Per le ragazzine i manicomi, devono essere rinchiuse in strutture di igiene mentale. Assassine, assassine, ricomincia a urlare l’uomo in camicie bianco. Maria durante il controllo incontra alcune delle donne che hanno abortito l’11 agosto e chiede loro se hanno incontrato il movimento per la vita. Entrambe rispondono che hanno raccolto il volantino, tanto poi l’hanno buttato. Maria chiede: avete reagito? Le rispondono che la loro scelta implica delle conseguenze, e che questa era una di quelle. Quanto potere ha il senso di colpa! Maria pensa che una tale remissività presuppone un profondo senso di colpa. Non che lei ne sia immune. Ci pensa a come sarebbe oggi e a quanto sia stato difficile scegliere, ma è convinta che le conseguenze dovessero riguardare soltanto lei e nessun altro. O almeno nessuno che le urlasse in faccia di essere un’assassina. Maria non avrebbe mai pensato di abortire eppure quell’agosto si è resa conto di non volere un figlio da sola, in quel momento la scelta più giusta per lei è interrompere quella gravidanza. Non la scelta giusta in assoluto. A volte si chiede come sarebbe stato. Si chiede anche quanto sia potente il pensiero che l’essenza di una donna sia essere madre. Quanto spesso ti ripetono che la vera e unica realizzazione di una donna sia fare figli. E si ricorda di alcuni anni fa, quando le dissero che forse non avrebbe potuto averne: il suo disorientamento, pur avendo sempre pensato di non volere un figlio in assoluto e in qualsiasi condizione, proprio come se anche lei fosse convinta dell’identificazione di vera donna e madre. Ci ha pensato anche quando ha visto alcune donne partorire: pur di farti partorire naturalmente ti fai 3 giorni con induzione del travaglio - che poi se lo induci cosa rimane di naturale? - 3 giorni di sofferenza, anche con il rischio di problemi fisici. Alcune donne supplicano di smettere di soffrire in una atmosfera in cui la denuncia della sofferenza è vista come debolezza. A qualche mese di distanza Maria è spaventata quando ripensa all’aggressione perché in quel momento non l’ha riconosciuta come tale. Ha attribuito quella reazione istintiva al momento - la perdita del compagno in quel momento difficile, la malattia e la morte del padre, l’arrivo imminente di un nipote. Ha pensato di aver reagito in modo eccessivo a causa del suo stato d’animo. Denunciare non le passa nemmeno per la testa. Nei mesi successivi, in coincidenza con la delibera Ferrero (21-807, il “Protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza che prevede la presenza dei volontari del movimento per la vita negli ospedali), una giornalista le chiede di raccontare quanto ha vissuto e solo allora Maria capisce il motivo per cui ha reagito e riconosce la violenza che ha subito. C’è un fascicolo aperto in procura, Maria si sorprende che le abbiano riservato attenzione. Chissà quante aggressioni non riconosciamo. È necessario avere una consapevolezza maggiore. Anzi una consapevolezza, perché le donne e le ragazzine sono sconcertanti per difetto di consapevolezza riguardo ai propri diritti. Maria è sorpresa anche perché dopo il pezzo su la Repubblica torinese ci sono state alcune reazioni: alcuni politici, la Regione, il Movimento per la vita. Quasi nessuna reazione pubblica da parte di associazioni, o un insieme di donne, collettivi, un gruppo di amiche, insomma da parte delle donne. Anche contro. Le donne quasi non ci sono. L’unico gesto è stato un comunicato appeso al muro a cura di alcuni collettivi e associazioni che poi hanno fatto ricorso al TAR contro la delibera. Chissà quante donne hanno vissuto situazione peggiori e non ne hanno parlato e continuano a vivere con questo peso nel cuore e si sentono in colpa in silenzio e in solitudine.

domenica 1 gennaio 2012

Moral legalism

Un articolo molto interessante di Stuart P. Green sul moralismo legale e sui diversi significati.

The term “legal moralism” has traditionally referred to the view that it is permissible to use government sanctions, including criminal sanctions, to enforce prohibitions on conduct that is immoral but not directly harmful (or even offensive) to others or self. Legal moralists of this stripe thus embrace the anti-liberal view that the state may legitimately criminalize acts such as adultery, incest, and prostitution, even when performed in private by consenting adults.
Lying, Misleading, and Falsely Denying: How Moral Concepts Inform the Law of Perjury, Fraud, and False Statements, Hastings Law Journal, 53, 12/1/01.

L’obesità come privilegio