domenica 12 maggio 2013

Chi ci marcia sulla Marcia per la Vita



Oggi a Roma si è svolta la terza edizione della Marcia per la Vita. Obiettivo: eliminare la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza.

L’appuntamento è per le 8 di questa mattina al Colosseo. Io arrivo verso le 9 e ci sono alcune persone davanti all’uscita della Metro B, lungo via dei Fori Imperiali e intorno all’Anfiteatro Flavio. Nei minuti successivi continueranno ad arrivare in tanti e da varie direzioni.
C’era chi distribuiva pettorine gialle per invitare a firmare la petizione “L’embrione è uno di noi”, chi offriva scarpine di maglia in vari colori e troppo piccole anche per il più minuto dei neonati in cambio di un’offerta libera, chi sventolava una bandiera, chi preparava gli striscioni che entro qualche minuto sarebbero stati innalzati su manici di scopa.
Un po’ più tardi del previsto (9.30) il corteo è partito incanalandosi lungo via dei Fori in direzione di Piazza Venezia. La via era ristretta da vari allestimenti sportivi – perlopiù reti da pallavolo – e fino all’angolo con via Cavour le persone sono passate sul lato sinistro per poi allargarsi nella parte finale. La Marcia è poi stata diretta verso via delle Botteghe Oscure, largo di Torre Argentina, corso Vittorio Emanuele per poi girare verso ponte Sant’Angelo e arrivare sullo spiazzo di fronte a via della Conciliazione. La destinazione finale era San Pietro e la fine dell’Angelus.

Oltre ai nomi delle associazioni o agli apodittici “No all’aborto”, le scritte andavano da “L’aborto non è un diritto ma un delitto!” a “Non sono un fatto politico. Non sono un’invenzione della Chiesa. Sono un bambino guardami!! (con un’immagine di un feto che si ciuccia il pollice)”, da “La vita inizia col concepimento” a “Salviamo le mamme e i bambini” – perché non è mica soltanto il nascituro a dover essere salvato, ma anche la donna, poco in grado di decidere e di capire che interrompere una gravidanza non è solo inammissibile moralmente ma è da autolesionista. Al richiamo ontologico si somma quello paternalistico: vogliamo impedirtelo per il tuo bene, non solo perché è sbagliato.


Camminando tra le persone e tra simili cartelli, si potevano sentire anche slogan simili urlati con o senza l’aiuto di un altoparlante, qualche volta coperti dalla banda in testa al corteo. “Ogni aborto è un bambino morto!”. Oppure: “Dal Colosseo dei martiri, ai papi di San Pietro! La marcia per la vita non torna indietro!”, “Ateo o credente non importa niente! A morire è sempre un innocente!”,Donna che hai abortito, per te non è finita. Vieni insieme a noi, e marcia per la vita!”.

La retorica “prolife” è fondata su malintesi e punta a suscitare reazioni immediate, poco importa se gli strumenti sono oppressi da fallacie e dalla disattenzione verso le conseguenze. Come l’identificazione tra “embrione” e “bambino”, o come il richiamo all’omicidio e al genocidio (coerente conseguenza ammessa la premessa, ma discutibile se la premessa rimane sospesa). È il caso di un cartello sorretto da una bambina con la scritta in stampatello: “Se fossi nata in Cina sarei morta piccolina. Sono felice di essere nata”. Sotto alla scritta dodici infanti con i fiocchi alternati rosa e azzurri. Oppure la scritta “Basta genocidi silenziosi” (mi auguro che anche eventuali genocidi non silenziosi non vadano bene).
Oltre agli slogan in tema, c’era anche un cartello su Eluana Englaro, “Vittima innocente dell’eutanasia. Voleva e doveva vivere”. Se avessimo ancora qualche dubbio, la questione non è tanto – o almeno non solo – la difesa degli embrioni, ma il controllo delle decisioni che le singole persone potrebbero esercitare. Per dirla con uno slogan: “Vogliamo difenderti dagli altri e poi da te stesso, dal concepimento alla morte naturale”. E non importa se non è chiaro perché qualcuno dovrebbe venirci a dire se e come morire, non importa se il richiamo al “naturale” non ha alcun senso (quale sarebbe una morte naturale?, e perché qualcosa che è naturale dovrebbe essere preferibile intrinsecamente e considerata moralmente benigna?), non importa se “vita” è un termine ambiguo e impreciso, non importa se l’alternativa all’autodeterminazione è il paternalismo legale o peggio l’imposizione – ciò che importa è che lo slogan funzioni: giù le mani da te stesso e giù le mani dall’embrione (che per ora è ancora così tanto legato a te da essere difficilmente separabile).

Non so quanti dei partecipanti fossero pienamente consapevoli per quale fine stessero marciando e che cosa comporterebbe l’abolizione della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza – obiettivo politico e morale della Marcia.
Tra le incoerenze più ricorrenti – non solo oggi tra i marciatori ma tra i tanti fautori del “no alla 194” – c’è la convivenza tra la richiesta di abolire la 194, riportando così l’interruzione di gravidanza nel dominio dei reati, e il rifiuto di condannare le donne (per strategia?, per misericordia?). La convivenza cioè tra un reato e l’assenza di pena – caso unico nel panorama penale, per cui non basterebbe invocare le attenuanti. È la stessa comoda incoerenza che caratterizzava la lista di Giuliano Ferrara “Aborto? No, grazie”: l’aborto è omicidio, le donne però non sono punibili e non le puoi nemmeno chiamare assassine. E non si capisce come si possa commettere un reato e contemporaneamente non essere rei, a meno che non si pensi che il reo sia intrinsecamente non in grado di intendere e di volere ma qui la situazione si complicherebbe ulteriormente.
Qualcuno ha la tentazione di pensare che in fondo potrebbe andare peggio, ma accontentarsi di questa “eccezione” è pericoloso almeno quanto giocare sulla difensiva sui diritti riproduttivi, ritrovandosi a dover sempre invocare circostanze eccezionali e speciali per giustificare la richiesta di ricorrere alle tecniche riproduttive, di interrompere una gravidanza, di non proseguire un trattamento sanitario.
Non so se questa incoerenza è un sintomo di un’adesione formale o di una disattenzione più strutturale. Il risultato è uno spettacolo un po’ buffo, un po’ triste, un po’ manieristico. E dopo qualche ora di marcia sotto al sole e sotto ai cartelli “prolife”, la convinzione che non esista possibilità di discussione è talmente assoluta da risultare banale. Come lo è chiedere a un creazionista di discutere con un evoluzionista, conservando l’ingenua convinzione che tutto possa funzionare come un dibattito televisivo indigeno: tu sei a favore o sei contro?


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